Ricostruire quanto sta accadendo in queste ore alla federazione sportiva russa è un’operazione piuttosto delicata, visti gli elementi in continua e rapidissima evoluzione. Gli eventi, infatti, hanno cominciato a susseguirsi con grande rapidità da lunedì scorso, 18 luglio, quando la WADA (agenzia mondiale anti doping) ha pubblicato il cosiddetto rapporto McLaren. Il rapporto analizza le testimonianze del dottor Rodchenkov, che affermava di aver somministrato sostanze dopanti a decine di atleti russi durante le Olimpiadi invernali del 2014, svoltesi a Sochi. Le accuse, decisamente pesanti, descrivono un sistema di doping di stato meticolosamente orchestrato dal ministero dello Sport russo, atto ad alterare il regolare svolgimento delle competizioni sportive.
Come è facile immaginare, la pubblicazione di questo documento ha scosso l’intero mondo olimpico, a sole due settimane dall’inizio della manifestazione in programma a Rio de Janeiro. E infatti, la reazione del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) è stata, come era facile aspettarsi, proporzionata all’enorme gravità della vicenda, e per ora ha confermato l’esclusione dei 68 atleti facenti parte della squadra di atletica leggera già squalificati in precedenza, riservandosi di prendere la decisione finale tra alcuni giorni.
La palla di neve rotolava giù dalla vallata già da novembre (in uno scandalo che, va detto, non interessava unicamente atleti russi) e aveva anche toccato il tennis con l’esclusione di Marija Sharapova e il controverso caso Meldonium. ha preso la forma di una vera e propria valanga lunedì, quando la WADA ha reso pubblico il proprio rapporto, a firma dell’avvocato Richard McLaren, nel quale veniva spiegata per filo e per segno la metodologia del sistema messo in piedi dal dottor Rodchenkov per somministrare le sostanze proibite agli atleti impegnati nelle Olimpiadi di Sochi senza che questi risultassero positivi ai controlli anti doping.
La struttura si avvaleva di almeno due laboratori, uno a Mosca e l’altro a Sochi, oltre che della copertura, protezione e addirittura pianificazione di Vitalij Mutko, ministro dello Sport nonché uomo forte del Cremlino. Con largo anticipo rispetto ai giochi di Sochi, nel primo laboratorio erano stati prelevati campioni di urina definiti “puliti“, ovvero provette dalle quali non si sarebbe potuto riscontrare l’assunzione di alcuna sostanza illegale. Le fiale erano state raccolte in tempi non sospetti e costituivano un vero e proprio archivio comprensivo di ciascun atleta impegnato a Sochi. Nei giorni dello svolgimento dei giochi, i campioni degli atleti analizzati venivano sostituiti nella notte, dopo essere state arricchiti di elementi come il sale da cucina per annullare il disallineamento temporale, in modo da risultare appena prelevate e pulite. Con questa tecnica, apparentemente infallibile, era assolutamente impossibile che un atleta venisse trovato positivo ai controlli anti doping.
Smascherare una metodologia del genere era praticamente impossibile senza le rivelazioni di qualcuno che fosse a conoscenza del metodo utilizzato; in altre parole, senza le confessioni di Rodchenkov – che ora vive in un luogo segreto negli Stati Uniti – sarebbe stato assolutamente impossibile venire a capo della vicenda. La linea di indagine adottata dal WADA è altrettanto affascinante. L’agenzia canadese, infatti, ha analizzato un campione di 95 provette di atleti russi analizzati durante le Olimpiadi di Sochi e ha trovato che tutte e 95 presentavano segni di forzatura, impercettibili all’occhio nudo, nei pressi del coperchio, testimonianza inequivocabile che qualcuno aveva manomesso il tappo-sigillo, applicandolo su fiale differenti. Un sistema ingegnoso per certi versi, ma assolutamente lineare per altri, rivelatosi infallibile.
Ovviamente perché il sistema potesse funzionare serviva copertura totale dell’intero sistema sportivo russo. Protezione e connivenza che, stando alle accuse e alla successiva decisione del TAS (Tribunale d’Arbitrato Sportivo) pronunciatosi sul ricorso per le squalifiche di novembre, non sono mai mancate agli atleti russi e che potrebbe estendere la portata della squalifica del CIO a tutta la spedizione russa, in totale composta da oltre 350 atleti. La decisione presa da Putin di squalificare tutti i membri della federazione russa coinvolti nella vicenda appare al momento piuttosto fragile e potrebbe non essere sufficiente ad arginare le decisioni del CIO.
Sebbene in molti abbiano visto in questa decisione una vittoria dell’agenzia anti doping e conseguentemente un elemento positivo per l’etica sportiva, in molti hanno notato alcune lacune nell’operato della WADA. Sulle pagine di Limes, per esempio, Nicola Sbetti ha fatto notare che entrambi i laboratori al centro dello scandalo fossero accreditati dalla WADA stessa, che in altre parole si sarebbe fatta “fregare” dall’intera federazione russa sotto il naso. Questa interpretazione evidenzia la superficialità dell’agenzia anti doping e allo stesso si presta a letture più complottistiche che parlano di una decisione politica volta a colpire l’intera struttura sportiva russa fino ad arrivare ai vertici governativi, nella persona del ministro dello sport Mutko la cui figura è stata già descritta su queste pagine.
Allo stato attuale dei fatti è impossibile trarre una conclusione definitiva, dato che molti dei tasselli della vicenda sono ancora mancanti. Quel che è certo con i pochi elementi a disposizione, è che questa vicenda, congiuntamente alle conseguenze che non mancherà di generare, appare irrimediabilmente destinata a rimanere nella storia sportiva di questa generazione e sembra destinata a creare un precedente fondamentale nella lotta al doping su scala globale.