“Invito il presidente degli Stati Uniti a consegnarci Fethullah Gulen perché implicato nel colpo di Stato. Chiunque gli darà ospitalità non è nostro amico”. Queste le parole del presidente turco Erdogan, dopo aver ripreso il controllo sul suo Paese, a poche ore dalla fine del golpe che ha scosso la notte sul Bosforo del 15 luglio. L’ex imam Gulen, che vive negli Stati Uniti d’America, è accusato di essere l’ideatore del fallito colpo di Stato militare. Nonostante il tentativo di strapparlo dalla guida del Paese sia fallito, per Erdogan si profilano scenari impegnativi sul fronte nazionale. Ma per il sultano di Ankara la partita più difficile si gioca sullo scacchiere internazionale.
I rapporti con gli Usa
Membro della Nato, la Turchia è sempre stata il guardiano statunitense della sua sponda sud-orientale. Come molti altri leader internazionali, dopo l’inizio delle operazioni militari di rovesciamento del potere, Barak Obama ha espresso il suo sostegno formale al governo democraticamente eletto di Erdogan. È vero anche che, dopo l’Egitto, gli Stati Uniti avrebbero difficilmente mandato giù un altro regime militare.
Dunque, il fallimento del golpe non è una cattiva notizia oltreoceano. Ma la permanenza negli Stati Uniti dell’imam Gulen rende i rapporti tutt’altro che distesi tra Washington e Ankara: se Obama accontentasse le richieste di Erdogan si mostrerebbe complice dell’epurazione di “dissidenti” in atto nel Paese nelle ultime ore. Un rifiuto, al contrario, potrebbe inasprire i rapporti, compromettere il dialogo e le dinamiche in Medio Oriente.
Il riavvicinamento con la Russia
Dopo il durissimo testa a testa con Mosca, a causa dell’abbattimento del jet russo al confine con la Turchia (novembre 2015), la tensione si è apparentemente allentata, rilassando anche il nuovo clima di “guerra fredda” tra Usa e Russia. Ma con il potere di Erdogan così in bilico e l’eventualità di un nuovo golpe, la possibilità di avere una Turchia in grado di bilanciare l’influenza di Putin da una parte e di tagliare la strada alla ritirata dell’Isis dall’altra si fa sempre meno concreta: il golpe, con la scia che si è lasciato alle spalle, ha introdotto un serio elemento di instabilità. Il suo fallimento peggiora la situazione.
L’UE e il nodo migranti
Nel marzo scorso, un accordo con Bruxelles sanciva lo stanziamento di circa 3 miliardi di euro per la Turchia, incaricata di gestire i profughi rimandati indietro dall’UE. Il rischio di uno spreco di risorse e di una cattiva gestione dell’emergenza immigrazione era altamente probabile già prima del tentativo militare di sovvertire il potere. Ancor più adesso, in una situazione di caos, il rispetto di quell’accordo potrebbe essere impossibile. Verrebbero meno i punti fondamentali del patto: controllo delle frontiere turche, contrasto dei trafficanti di esseri umani e monitoraggio dei flussi di migranti che transitano irregolarmente dalla Turchia alle isole greche.
Erdogan tra Israele e Gaza
Il 28 giugno, Dore Gold, direttore generale del Ministero degli Esteri d’Israele e il suo omologo turco Feridor Sinirlioglu avevano messo fine al gelo nei loro rapporti dopo i fatti del 2010, quando la Mavi Marmara – imbarcazione turca che aveva cercato di rompere il blocco navale per raggiungere il territorio palestinese controllato da Hamas – venne bloccata dalle forze speciali israeliane. L’operazione aveva causato morti e feriti sia tra gli attivisti filopalestinesi che si trovavano a bordo che tra i militari israeliani.
Punto cardine dell’accordo di pace è la questione della Striscia di Gaza: ottenendo il via libera agli aiuti umanitari, la Turchia si è impegnata a costruire infrastrutture, scuole e ospedali sul territorio. La priorità sarà data agli approvvigionamenti energetici, alla depurazione delle acque marine e al rifornimento di medicinali. Subito dopo la firma, sono salpate dalle coste turche 10,000 tonnellate di rifornimenti verso Ashdod. Il primo ministro turco, Binali Yildirim – fedelissimo di Erdogan -, aveva fortemente voluto questa pace. Ma, allo stato attuale delle cose, anche l’accordo con Israele rischia di essere messo nel cassetto a causa delle esigenze interne di Erdogan e dell’esecutivo.
Un bilancio
Si può dire che la Turchia sia, al momento, il baricentro delle tensioni internazionali in Medio Oriente, dalle guerre in Siria e Iraq, fino al rapporto bifronte con lo Stato Islamico, prima sostenuto indirettamente da Ankara in funzione anti-Assad e anti-curda e poi osteggiato, con probabile connessione con gli attentati kamikaze sul suolo turco.
Certo, l’incertezza internazionale è una spada di Damocle sulla testa del presidente turco. D’altro canto, Erdogan non poteva sperare di meglio che una duplice vittoria post-golpe: il fallimento del tentativo militare dato dal sostegno plebiscitario del popolo turco da un lato, il successo per aver scongiurato una guerra civile nel Paese dall’altro.