Il colpo di Stato in Turchia è fallito. Sarebbe meglio dire: per la prima volta nella storia della Turchia moderna, un colpo di Stato militare non ha avuto successo. È da questa prospettiva che dovremmo guardare a quello che è successo la notte scorsa. Senza farci abbagliare da chi, in questa vicenda, non è il vero protagonista.
Sì, è vero, c’è un presidente che è uscito indenne da una prova durissima. C’è un politico che ha imperniato la sua carriera sul populismo e dal “suo” popolo è stato salvato. Abbiamo davanti agli occhi immagini che profumano già di storia. Erdogan che si appella ai cittadini dal cellulare mentre è nascosto chissà dove, il colpo di reni che probabilmente ha rovesciato la situazione e gli ha permesso di tornare in sella. Quei cittadini che si riversano in strada, si stendono sull’asfalto per bloccare i carri armati, li assaltano e li aprono come scatolette. Quella turbinosa conferenza stampa dall’aeroporto, Erdogan che si riprende i gradi e alle sue spalle – ce n’è sempre uno nel momento del bisogno – il ritratto di Kemal Ataturk, il padre della patria.
Ce n’è abbastanza, insomma, affinché Erdogan riesca a trasformarsi in un nuovo, apparente padre dei turchi. Con più libertà di manovra nel picconare la costituzione, imbavagliare opposizioni, media, attivisti, sistema della giustizia. E tutto ciò ci abbaglierà. Abbaglierà chi lo osanna, ma anche chi lo vedrà come un dittatore ormai conclamato. Ma così rischiamo di non prestare la dovuta attenzione al vero sconquassamento che stanotte ha messo la Turchia su un binario inedito: l’esercito ha fallito. E l’esercito è la Turchia per come l’abbiamo conosciuta fino a ieri.
La Turchia ha perso la sua spina dorsale. L’esercito ha sparato sulla folla, quegli stessi militari che hanno reclamato per sé il ruolo di custodi dell’eredità kemalista. Un’eredità che è parte fondamentale dell’idea turca di nazione, che ha gettato radici e intessuto il legame sociale. È questo lo strappo su cui dovremmo interrogarci, quello più profondo e denso di conseguenze. I militari hanno fallito, ora l’esercito non significa più niente o forse significa altro, e questo “altro” non può che stare su un livello più basso. Quello della politica – che non è fattore aggregante, bensì pulsione centrifuga – che per definizione non conosce tabù. E così facendo, annullando se stessi, questi militari hanno commesso qualcosa come un parricidio.
Adesso resta un posto vuoto. Il vuoto sarà riempito. Tutto sta nel vedere i modi e i tempi con cui ciò avverrà. In questo momento, all’orizzonte non si intravede altro che elementi di divisione. Lo è la politica di Erdogan, che sarà il primo a reclamare per sé quel posto vuoto. Divisiva è però anche l’incapacità degli altri partiti di rispondere ai bisogni della Turchia, e non solo di una parte di essa. Piegata probabilmente agli interessi di una fazione, assolutamente già invischiata nelle trasformazioni profonde che stanno plasmando il Medio Oriente e l’Europa, la Turchia rischia di uscirne smembrata. Ma questi sono processi che si misurano col metro dei lustri e dei decenni, e perciò difficili da riconoscere prima che sia troppo tardi. Erdogan passerà, ma non è detto che questo lasso di tempo sia sufficiente per ricucire lo strappo in qualche modo. Bisogna incominciare fin da subito. Senza farsi distrarre dal nuovo Recep Tayyip “Ataturk”.