In attesa dei risultati defiitivi delle elezioni, che sembrano profilare una vittoria del centrodestra, proponiamo un reportage che racconta le motivazioni storiche dell’attuale divisione. L’attuale reportage segue idealmente quello pubblicato dallo stesso autore sul primo numero del nostro magazine.
di Matteo Acmé
Le rovine dell’Abbazia di Bellapais dominano sul mare che divide la costa Nord di Cipro dalle rive della Turchia. Restano qui a controllare le navi che arrivano e quelle che ripartono. Da qui hanno visto sbarcare l’esercito turco nel 1974 che andava incontro a quello guidato dai militari Greci nella marcia che ha portato alla fortificazione della divisione dell’isola, divisione che ancora oggi sopravvive nonostante le aperture e il parziale ricongiungimento dei Turco e Greco Ciprioti. L’abbazia fu costruita a cavallo del 1200 da monaci agostiniani in fuga da Gerusalemme conquistata dal Saladino. Quando arrivarono a questo incantevole luogo ci costruirono un monastero e, forse ispirati dalla natura splendida e incontaminata, forse sopraffatti da un momento di ottimismo, lo chiamarono Abbazia della Pace, da cui deriva il nome del piccolo paesino che vi è nato attorno. Siamo sulle alture di Girne (Kirenia in greco), il centro turistico della Repubblica Turca di Cipro Nord: alberghi, ristoranti, bar sul romantico porticciolo, piccole case da gioco, splendido mare.
Appena scopre che sono italiano Aycan, il cameriere turco che lavora in uno dei locali vicino all’abbazia, inizia, come tante altre persone che ho incontrato durante il viaggio, a parlarmi di calcio. Poi si siede al tavolo per bere insieme il caffè. Con noi c’è anche un ex-professore in ingegneria civile, turco cipriota. Il caffè turco deve essere lasciato depositare a lungo, se non si vuole bere sabbia, e questo invita alla chiacchiera. Ne approfitto per chiedere come vivono loro il problema e la divisione di Cipro.
“È un problema di ogni giorno, iniziato molto tempo fa, ben prima del ‘74”. Il professore studiava a Istanbul quando l’isola venne invasa dall’esercito turco. Quando tornò al suo paese non aveva più la possibilità di raggiungere la sua casa, rimasta a sud del confine, né i suoi terreni: oggi qualche Greco Cipriota li lavora al posto suo. “La stessa cosa è avvenuta al Nord” mi assicura, lui invece, non volendo occupare proprietà che non gli spettavano, è andato a lavorare per alcuni anni in Inghilterra. Quando è tornato, anche a causa dei problemi con la giustizia dovuti alle sue idee politiche, non solo ha fatto fatica a trovare una casa che non fosse stata abbandonata da un Greco Cipriota, non è riuscito più a trovare nemmeno un lavoro. “Le case e i lavori migliori- mi dice -sono stati tutti assegnati a parenti o persone vicino ai politici, loro sono tutti sistemati”. Lui oggi scrive su un giornale di ispirazione socialista e consegna surgelati ai ristoranti in riva al mare. Quando gli chiedo il suo nome mi guarda e gelido mi chiede: “vuoi che finisca in prigione?”. Non so se sia un’esagerazione, se abbia voluto impressionarmi e se il pericolo esista veramente, comunque non insisto.
Come tanti altri turchi anche Aycan, chiamato da tutti Alì Can, è venuto a Cipro Nord in cerca di lavoro. Qui il salario minimo è quasi il triplo di quello che viene concesso in Turchia, così la Repubblica Turca di Cipro Nord è stata letteralmente invasa da giovani turchi che lavorano dodici ore al giorno e mandano i soldi a casa. E i Turco Ciprioti certo non sono contenti di questo. “Dopo l’invasione militare c’è stata una vera e propria invasione culturale e demografica” continua il professore “Il lavoro scarseggia per i Turco Ciprioti: quelli che non vanno a lavorare al sud si trasferiscono all’estero, la nostra cultura rischia di andare persa schiacciata fra quella di lingua greca e l’ingombrante presenza turca.”
Aycan scuote la testa. Per lui la situazione non è certo facile: emigrato dal suo paese in cerca di fortuna è mal sopportato dai ciprioti che parlano la sua stessa lingua ed è visto solo come un invasore dai ciprioti del sud che ancora si sentono minacciati dalla presenza dell’esercito turco sull’isola. Persino l’Arcivescovo ortodosso, come da tradizione cipriota molto presente nella vita politica del paese, ha dichiarato alcuni mesi fa: “Il nostro nemico non sono i turco ciprioti, il nostro nemico è Ankara”. Questa dichiarazione sintetizza una versione del problema di Cipro che molto spesso è diventata la versione ufficiale, quella che viene raccontata, e accettata, nel resto d’Europa: secondo questa versione la divisione dell’isola è stata scatenata dall’intervento militare turco nel ’74. Ma le violenze e la divisione delle due comunità risalgono già al decennio precedente, al precoce fallimento della Repubblica di Cipro fondata nel 1960 dopo la liberazione dal dominio inglese. Erano i tempi in cui l’EOKA, l’organizzazione armata di fucili americani, combatteva in nome dell’unificazione con la Grecia e ammazzava chi tentava di opporsi. Già in quegli anni l’ONU dovette intervenire per fermare le violenze e traghettare le due comunità divise in due zone separate. Già in quegli anni esisteva un confine, che non si chiamava ancora Linea Verde, a dividere l’isola. Mi viene addirittura raccontato dell’esistenza di mappe inglesi risalenti all’immediato secondo dopo guerra in cui compare già un’arbitraria linea che divide Cipro in due, percorrendola da occidente a oriente. Non raccontare questa parte della storia non permette di capire tutto ciò che è accaduto dopo.
Per il turco Aycan questo significa essere visto come l’unico colpevole della crisi attuale, e non come uno dei tanti responsabili. “Crescono con la mentalità di combattere il nemico, crescono nell’odio verso di noi. Questo non può portare ad una soluzione né ora né mai”, si riferisce ai libri di scuola utilizzati nella parte sud di Cipro in cui, mi è stato confermato anche da alcuni Greco Ciprioti, il racconto dell’origine della divisione incomincia dal ’74, ignorando tutto ciò che è accaduto prima. A questo punto il professore indica il mare davanti all’Abbazia della Pace: “Tutta l’isola è circondata dal petrolio che fa gola a tutte le potenze mondiali. Finchè saremo impegnati a litigare fra di noi come cani e gatti non avremo tempo per occuparci di come viene diviso il nostro petrolio”.
Scendo a Girne con i suoi turisti russi, tedeschi e inglesi. Quasi tutto quello che mangiano e bevono, i letti dove dormono, i souvenir che si portano via è preparato per loro da turchi arrivati qui in cerca di salari migliori.
Pochi giorni dopo mi trovo a Famagosta. Nella piazza principale della città la vecchia cattedrale cattolica di San Nicola oggi è una grande moschea da cui, all’una in punto, risuona il canto del muezzin. Nella città che attende sotto un caldo opprimente anche la musica nei bar si ferma per permettere ai fedeli di udire il richiamo alla preghiera. Nel piazzale davanti all’entrata un enorme ficus centenario proveniente dall’Africa orientale fa ombra alle persone, tutti uomini, sedute sulle poche panchine. Una piazza che potrebbe essere il simbolo perfetto di una pace ritrovata a Cipro: un moderno ristorante, resti di cristianesimo, presente musulmano, un pizzico di africa, tutto raccolto in pochi metri, un’armonia quotidiana e per questo così spettacolare. Purtroppo la convivenza non è stata, e non è, così facile nel resto dell’isola che eppure è così ricca di storia, così affascinante, a cavallo fra il mondo occidentale e l’Oriente. Una difficoltà sintetizzata dalle parole con cui mi ha salutato l’ex-professore di Bellapais: “Tutto questo sembra un paradiso. Ma non lo è.”
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