Il bambino nella neve
di Włodek Goldkorn
fotografie di Neige De Benedetti
Feltrinelli, Milano 2016
pp. 202, euro 16.00
Chi sia il bambino nella neve del titolo lo si comprende fin dalla prima mezza pagina, capitolo numero zero, esergo necessario quanto spiazzante del densissimo libro di memorie di Włodek Goldkorn, giornalista di origini polacche, responsabile per anni del settore cultura del settimanale L’Espresso.
Il bambino del titolo torna fugacemente a metà del libro e, in un altro passo, si confronta a distanza, senza alcun legame diretto, ma quale antifrasi ideale, con un altro bambino. Non dirò nulla del primo, occorre leggerla quella piccola storia indicibile all’interno dell’altrettanto indicibile buco nero della Shoah. Il secondo è un bambino arabo, che sta frugando in una discarica a Ramallah.
Goldkorn, ebreo polacco, figlio di due comunisti sopravvissuti alla Shoah perché fuggiti in Unione Sovietica nel 1939, cresciuto tra Katowice e Varsavia, abbandona con la famiglia la Polonia nel 1968 in seguito alla campagna antisemita scatenata dal regime. Dopo un breve periodo a Vienna, con i genitori e la sorella emigra in Israele, in seguito andrà a studiare in Germania, dove non si ambienterà per via della persistenza dei segni del Nazismo, e sceglierà, infine, l’Italia perché “se ero condannato a non avere una casa, avrei vissuto nel paese più bello del mondo”.
Agli inizi degli anni settanta Godlkorn si trova dunque nei pressi di Ramallah, è una recluta dell’esercito israeliano. Un venerdì il sergente gli ordina di accompagnarlo a portare l’immondizia alla discarica: è giorno di festa per i musulmani e gli operai arabi non svolgono la loro solita incombenza. I due si approssimano con un trattorino alla discarica, un nugolo di bambini arabi che sta rovistando tra i rifiuti, alla loro vista, fugge via. Solo uno di sei o sette anni rimane fermo, come impietrito, ha un elmetto bucato sulla testa. Il sergente gli si avvicina guidando con velocità furiosa, gli intima di dire dove l’ha trovato, il bambino ha negli occhi il terrore. Il sergente ordina a Goldkorn di puntargli il fucile contro, inizia tra loro una durissima conversazione: Goldkorn si rifiuta di farlo, anche se rischia il deferimento alla corte marziale. Il sergente gli prende il fucile e punta la canna contro il bambino terrorizzato.
Non c’è senso alcuno in quell’azione, il bambino non è né un ladro né un nemico, la sua immagine si sovrappone a quella di un altro bambino, il terzo in questo gioco di rimandi, cioè il ragazzino che alza le mani in segno di resa nel Ghetto di Varsavia. L’avrà mai vista quell’immagine il sergente? Certo che sì, in tutte le scuole israeliane era presente.
Goldkorn per tutto il libro si interroga sul senso della dicotomia, piuttosto fragile, tra carnefici e vittime, sulla reversibilità dei ruoli, sulle necessità di sapersi mettere nei panni degli altri per evitare azioni di sopraffazione e spregio, come quella del sergente, ma anche di vuoto vittimismo. Un vittimismo paradossale ai suoi occhi soprattutto quello dei figli e dei nipoti della Shoah, che non hanno vissuto in prima persona l’orrore dei campi, le umiliazioni, che nulla possono sapere dell’agonia nelle camere a gas.
Goldkorn attraversa il suo personale Novecento a partire dalla memoria dei parenti uccisi ad Auschwitz e nei luoghi dello sterminio, racconta della Polonia del dopoguerra in gran parte ostinatamente antisemita, del pogrom di Kielce del 1946 a casa sua si parlava spesso. Racconta di un’infanzia piuttosto serena in un condominio dove vivono famiglie di ebrei comunisti e i bambini in cortile giocano “ad Auschwitz”, nulla di crudele o morboso, solo una versione dettata dai tempi di guardie e ladri.
Poi il sessantotto polacco con l’esodo incoraggiato di migliaia di cittadini ebrei, la delusione di Israele a cui Goldkorn non nega il diritto di esistere, ma dal quale si sottrae non riconoscendosi in una realtà di occupazione militare.
Centrale nella sua narrazione è un incontro fra i più importanti della sua vita, quello con Marek Edelman, vice comandante della Żob, l’Organizzazione ebraica di combattimento costituita nel Ghetto di Varsavia, che guidò l’insurrezione. Un dialogo che si dipana lungo diversi anni, il loro, affrontando i temi dell’eroismo – nessun eroismo nel Ghetto per Edelman, solo la strenua lotta per l’esistenza – della fallacia della memoria e dei rischi della sua retorica esaltazione, dell’attenzione all’essere umano qui e ora e al rifiuto dei grandi ideali.
La memoria prima di tutto. Ma non la memoria ad ogni costo. Per Goldkorn se ne deve fare un uso politico nel senso più alto possibile.
Un tempo si narrava che venissero portati nelle miniere i canarini perché sensibili ai gas, così erano in grado di avvertire i minatori quando la catastrofe si stava avvicinando. “Ecco, per me la memoria significa essere un canarino nella miniera, dare l’allarme quando sento l’acre odore del razzismo”.