Sarà già una partita decisiva, quella di stasera della Romania. Dopo la buona prestazione di sacrificio nella partita inaugurale di Euro 2016 contro la Francia, che ha giustiziato i Tricolorii con una magia di Payet nell’ultimo minuto del tempo regolamentare, la Romania affronterà la Svizzera al Parco dei Principi di Parigi. Una nuova sconfitta costringerebbe con ogni probabilità la nazionale romena a una vittoria enfatica contro l’Albania di De Biasi: un’impresa difficile contro una difesa solida come quella albanese, per una squadra che non fa certo del reparto avanzato il suo punto di forza.
La Romania è riuscita – per la seconda volta nella sua storia – a qualificarsi alla fase finale di un torneo senza patire sconfitte. In entrambi i casi, i biglietti staccati erano per la Francia: la prima occasione fu infatti la cavalcata verso la Coppa del Mondo del 1998, resa imperfetta unicamente da un pareggio con l’Irlanda di Tony Cascarino. Anche stavolta, come diciotto anni fa, a guidare la squadra dalla panchina c’è Anghel Iordănescu, il più influente tecnico del paese. Non si può dire, tuttavia, che si sia trattato di una cavalcata trionfale: una nazionale disorientata dall’abbandono del CT Victor Pițurcă, passato all’Ittihād di Gedda (Arabia Saudita), e ben 380 minuti passati senza riuscire a segnare un gol sono il contraltare di una squadra che ha però concesso solo due reti in dieci partite nel torneo preliminare.
Iordănescu, alla terza esperienza sulla panchina dei Tricolorii, dopo aver guidato tra il 1993 e il 1998 la Generația de Aur (“generazione d’oro”) del calcio romeno, simboleggiata dal nome di Regele Fotbalului (“il re del calcio”) Gheorghe Hagi, è il tratto d’unione tra la Romania degli anni ’90 e quella odierna. Oltre a lui e ai colori sulla maglia, però, sembra esserci davvero poco in comune con la squadra che sfiorò la semifinale mondiale negli Stati Uniti nel 1994. Si è chiusa l’epoca dei grandi fantasisti come Hagi e, successivamente, Adrian Mutu (ritirato proprio il mese scorso) ed è rimasta una squadra di onesti mestieranti. Gran parte della squadra gioca in campionati di secondo piano, con l’eccezione di qualche comprimario tra Serie A e Premier League (il portiere Ciprian Tătărușanu della Fiorentina, il capitano Vlad Chiricheș riserva del Napoli, il portiere di riserva Costel Pantilimon scaricato dal Sunderland alla panchina del Watford). E dell’anarchia creativa che pervadeva i Tricolorii degli anni ’90 nella gara di inaugurazione contro la Francia si è visto poco. La classe, a Euro 2016, è stata sostituita da garra e sacrificio, con la solidità del blocco difensivo al centro del progetto tecnico.
Sembra una Romania in cerca di una nuova identità, dopo le delusioni della sua storia recente. Nei giorni precedenti al debutto all’Europeo, il quotidiano Adevărul ha pubblicato un documentario di 80 minuti intitolato În căutarea fotbalului pierdut, “alla ricerca del calcio perduto”, chiedendosi cosa abbia portato la Romania a un punto così basso dopo l’entusiasmo degli anni ’90. Tra immagini capaci di strappare lacrime di nostalgia a qualsiasi tifoso dei Tricolorii, il documentario tratteggia la discesa agli inferi del calcio romeno, individuando diverse cause: la minore importanza riservata allo sport e all’educazione fisica nel sistema scolastico dopo la caduta del comunismo; il fallimento di molte imprese a cui erano legati diversi club nel periodo comunista in seguito alle privatizzazioni degli anni ’90; gli squali che si appropriarono di gran parte delle squadre e che occuparono i vertici della federcalcio per ragioni di immagine e profitto personale, spesso portandole allo sbando con una gestione da padri-padroni.
Il risultato? La morte delle accademie giovanili, fatta eccezione per l’accademia fondata da Gheorghe Hagi, che ha trovato il proprio sbocco in Liga I attraverso il Viitorul, ma che non è esente da ombre sul suo operato e che soprattutto non fa parte di un programma statale coordinato, ma resta una cattedrale nel deserto legata personalisticamente a Regele Fotbalului. Tanti casi di corruzione o inefficienza, come le vicende legate all’organizzazione di alcune gare dell’Europeo 2020 o la morte in campo di Patrick Ekeng della Dinamo Bucarest. E la scomparsa o le difficoltà dei principali club: l’Astra Giurgiu, che quest’anno ha vinto il campionato per la prima volta nella sua esistenza, quattro anni fa ha lasciato la sua sede storica, Ploiești; lo Steaua Bucarest di Gigi Becali, lontano parente della squadra che trionfò in Coppa dei Campioni nel 1986, dilaniato da una battaglia legale con il ministero della Difesa, che ne deteneva la proprietà ai tempi del comunismo, e ora impossibilitato a usare nome, stemma o stadio del club; l’Argeș Pitești, che negli anni ’70 sconfisse il Real Madrid e stregò don Santiago Bernabèu grazie al talento del suo Nicolae Dobrin (dichiarato “bene nazionale inalienabile” da Nicolae Ceaușescu) e che ora si trova a giocare in quarta divisione dopo essere stato sciolto nel 2013 e rifondato da un gruppo di tifosi; e la paradossale storia dell’Universitatea Craiova, sciolto nel 2011 dalla federazione e dalla lega, che ora devono corrispondere al suo proprietario Adrian Mititelu un risarcimento di 220 milioni di euro.
La nazionale romena a Euro 2016, insomma, sta giocando come una squadra che ha molto da dimostrare. Soprattutto a se stessa e al proprio pubblico, e a quelle generazioni future che andranno a darle nuova linfa. Deve dimostrare che il calcio romeno si merita molto di più di un movimento allo sfascio a causa della gestione personalistica e della mancata programmazione. Nell’attesa che una nuova scintilla di anarchia creativa illumini di nuovo il mondo del calcio come negli anni ’90.
Foto: Echipa națională de fotbal a României (Facebook)