UNIONE EUROPEA: Alla ricerca della solidarietà

“L’Europa non potrà farsi in una volta sola, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto.”

Il 9 maggio 1950, il ministro degli Esteri francese Robert Schuman pronunciava queste parole nella storica sala dell’orologio del Quai d’Orsay di Parigi, ponendo le basi di quella che oggi è l’Unione Europea. Mentre dopo sessantasei anni ricordiamo ancora l’evento, che dal 1985 è celebrato come Europe Day, una domanda sorge quasi spontanea: cosa ne è stato del principio di solidarietà e di pace sancito dalla sua dichiarazione?

Analizzando la politica europea sull’emergenza migratoria, l’Unione Europea sembra ben lontana dalla direzione tracciata dai suoi padri fondatori. Priva dei suoi valori cardine e vuota di quel sentimento su cui era stata creata. L’Europa solidale sembra aver lasciato spazio a muri, barriere e controlli serrati. Lo dimostra la rotta balcanica, totalmente chiusa dallo scorso marzo, quando anche la Macedonia ha bloccato il confine con la Grecia, imitando la strada che tutti gli altri vicini avevano già tracciato nei mesi precedenti. E oltre alle centinaia di chilometri di filo spinato, a riprova della cattiva gestione del fenomeno da parte del vecchio continente c’è l’accordo da 6 miliardi di euro, firmato il 18 marzo tra Unione Europea e Turchia.

Perseguendo il fine ultimo di bloccare l’operato dei trafficanti e aprire una via “sicura e legale” verso l’Europa, dal 20 marzo i migranti irregolari siriani che viaggiano verso le isole greche vengono respinti e rimpatriati in Turchia, per essere successivamente riallocati in Europa. In cambio, oltre al denaro, l’Europa si è impegnata a riaprire le negoziazioni per l’ingresso della Turchia nell’Unione e ha promesso la libera circolazione dei cittadini turchi in territorio comunitario a partire da giugno.

Le istituzioni europee e nazionali si dimostrano fiere e addirittura disposte ad usare questo intervento esterno come modello da esportare: è il caso dell’Italia e del Migration Compact, che fa seguito al primo tentativo di collaborazione con paesi africani già teorizzato nel 2015 dal processo di Khartoum. Il premier Renzi si è detto desideroso di seguire la scia turco-europea e di voler cooperare con Paesi terzi di origine e di transito (la Libia per esempio) al fine di ridurre i flussi anche lungo la rotta mediterranea, attraverso nuovi strumenti come bond Ue-Africa e progetti di investimento. Le ONG che lavorano nel settore hanno invece sollevato aspre critiche: Medici senza frontiere lo ha definito “l’accordo della vergogna” e ha interrotto le operazioni di assistenza nell’hotspot di Lesbo, mentre John Dalhuisen di Amnesty International ha sottolineato che “la Turchia non è un paese sicuro, e ogni procedura sarà arbitraria, illegale e immorale a prescindere da qualsiasi fantomatica garanzia.”

Alla luce degli ultimissimi avvenimenti, l’inefficacia di queste politiche non ha tardato a manifestarsi. A meno di due mesi dal via le conseguenze dell’accordo con la Turchia sono già visibili in Grecia: migliaia di migranti aspettano di essere identificati uno ad uno da funzionari ed esperti che non sono mai arrivati. In Turchia, come testimoniato dal report del 10 maggio di Human Rights Watch, si è intensificato l’uso della forza nel respingimento dei migranti, proprio in quei campi che dovrebbero rappresentare la concretezza della democratica Europa e al confine bloccato con la Siria. Nel frattempo, Erdogan risponde alla reticenza europea sulle questioni del visto minacciando di riaprire i confini, e la più pericolosa rotta mediterranea ha già dimostrato di essere l’effetto collaterale dell’accordo, con oltre ottocento migranti (per lo più siriani) arrivati nel canale di Sicilia pochi giorni fa e molti altri arrivi previsti.

Agli occhi di chi crede che i migranti siano persone e non numeri, il 9 maggio 2016 l’Unione Europea ha festeggiato la politica degli interessi, a discapito del senso di umanità. Nonostante una millantata consapevolezza, l’Unione Europea sembra aver dimenticato le motivazioni che spingono i migranti ad abbandonare le proprie case, così come le condizioni imposte dalle dittature a quelli che noi definiamo “migranti economici”. Che si tratti dell’emergenza siriana, considerata una priorità, o del fenomeno mediterraneo, già strutturato e più a lungo termine, l’ambizione europea di scendere a patti con paesi che non garantiscono internamente il rispetto dei diritti umani svela i vizi che affliggono oggi l’Unione.

Chi è Francesca Barbino

Nata in Calabria nel 1993, vive a Forlì dove si è laureata presso il MIREES, Interdisciplinary Research and Studies on Eastern Europe. Da maggio 2016 collabora con East Journal, per il quale si occupa principalmente di Caucaso.

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