STORIA: Si poteva salvare la Jugoslavia? Il mito delle proteste belgradesi del 9 marzo 1991

Il prossimo 25 giugno ricorrerà il 25° anniversario delle dichiarazioni di indipendenza della Slovenia e della Croazia dalla Jugoslavia. Per convenzione tale data rappresenta simbolicamente la fine della federazione degli Slavi del sud, sebbene, a ben vedere, rappresenti in verità una delle tappe fondamentali all’interno di una serie di eventi che conclusero una fase storica e ne iniziarono una nuova. Sulle cause che condussero alla dissoluzione della Jugoslavia sono stati scritti innumerevoli volumi e, nonostante la nutrita bibliografia sul tema, le differenze interpretative permangono, dando adito ad una delle maggiori controversie storiografiche. Il dato di fondo è che si scontrarono due diverse concezioni sul futuro assetto della Jugoslavia, ossia una federazione con forti poteri al centro (avanzata dalla Serbia), oppure una unione di stati sovrani (proposta dalla Slovenia e dalla Croazia).

Minore è stata invece l’attenzione rivolta a quanto avrebbe potuto evitare la fine della federazione jugoslava. Ovviamente si tratta di speculazioni, essendo impossibile identificare a posteriori un evento che non si è verificato, oppure che non ha avuto l’esito previsto. Anche in questo caso, i punti di vista sono differenti e, non di rado, contrapposti. Non si tratta dunque di individuare dei presunti responsabili interni o esterni (un politico locale, oppure una potenza straniera), quanto piuttosto di comprendere quali azioni avrebbero potuto attivamente salvare il paese. La domanda inoltre, per essere più incisiva, dovrebbe essere circoscritta ad un ambito temporale il più possibile definito. Ad esempio, si potrebbe prendere in considerazione il periodo compreso tra la reintroduzione del multipartitismo (processo conclusosi nel dicembre 1990), e l’acuirsi della crisi tra le repubbliche, sino alla dichiarazione di indipendenza delle due repubbliche settentrionali (giugno 1991). Occorre aggiungere, per correttezza, che non fosse del tutto scontata la vittoria elettorale delle forze nazionaliste, sebbene i segnali non fossero molto incoraggianti. Infatti, in Jugoslavia vi furono delle forze (ad esempio l’UJDI, oppure lo SRSJ) progressiste, democratiche, pro-jugoslave, espressione della società civile che, anche al di fuori del ristretto perimetro politico e partitico, tentarono di percorrere questa direzione, sebbene senza successo. Grazie anche al lavoro di giovani ricercatori, l’attenzione verso il ruolo delle forze non-nazionaliste in Jugoslavia ha prodotto dei lavori originali che hanno reso meno banale e stereotipata la letteratura scientifica, evitando l’appiattimento sul tema dei nazionalismi.

Per semplicità, si potrebbero delineare due differenti, nonché contrapposte, scuole di pensiero, a proposito di cosa sarebbe stato necessario attuare per salvare la Jugoslavia, nella prima metà del 1991. Escludendo dunque la vittoria elettorale delle forze democratiche, pan-jugoslave e non-nazionaliste (perché i cittadini jugoslavi scelsero di non votarle), ed escludendo la proposta sloveno-croata di trasformare la Jugoslavia in una unione di stati (perché contrastata dalla Serbia), rimangono, nella categorie delle occasioni perdute, due miti. Il primo riguarda il mancato colpo di stato da parte dell’Armata popolare jugoslava, che avrebbe dovuto rimuovere i vertici politici a Lubiana, Zagabria ed eventualmente altrove, per tenere assieme con la forza il paese, e salvarlo così dal baratro del conflitto imminente. Questa tesi è problematica sotto vari punti di vista. In primo luogo non è affatto detto che un golpe dei militari jugoslavi in Slovenia o in Croazia avrebbe necessariamente placato gli animi, anzi, avrebbe potuto ottenere l’effetto opposto (in Slovenia e Croazia, nonostante fossero state requisite, almeno in parte, le armi della Difesa territoriale, proseguirono gli acquisti dalla Germania e altri paesi). Inoltre questa soluzione era favorita essenzialmente, oltre che da una parte degli alti ufficiali dell’esercito, e dal loro (elettoralmente irrilevante) partito politico, la Lega dei comunisti – Movimento per la Jugoslavia, solamente dalla Serbia guidata da Slobodan Milošević, dunque un piano simile non sarebbe stato percepito ovunque come al di sopra delle parti e nell’interesse di tutti gli jugoslavi. Infine, l’allora ministro della difesa federale, il generale Veljko Kadijević, dopo vari tentennamenti, dubbi e incertezze, nonostante il supporto politico della Serbia, decise di rinunciarvi, probabilmente perché comprese che non avrebbe avuto un forte e chiaro mandato politico, avrebbe rischiato di porre la Jugoslavia sotto sanzioni internazionali, e perché l’esercito stava già dando segnali di sfaldarsi lungo le linee di appartenenza nazionali. Il secondo mito, sul quale ci si soffermerà di seguito, riguarda le manifestazioni dell’opposizione che si tennero a Belgrado il 9 marzo 1991 (e che si protrassero nei giorni successivi).

L’ideologia di Drašković

Il leader dell’SPO, in quel periodo (1990-1991), ideologicamente si collocava in una delle varianti del nazionalismo serbo, ossia quello filo-monarchico, sebbene cercasse di mettere in evidenza la sua fede anti-comunista (per quanto egli stesso fosse stato un membro della Lega dei comunisti della Jugoslavia) ed il suo legame con l’Occidente. Drašković fu indubbiamente uno dei principali promotori della riabilitazione del movimento dei cetnici. Nella seconda metà degli anni ‘80 Drašković contribuì, assieme ad altri intellettuali serbi e non solo, a creare un clima di tensione e sfiducia in Jugoslavia, affermando, ad esempio, che in Croazia il regime titoista si fosse macchiato di “genocidio culturale” a scapito dei serbi che lì vivevano. Indubbiamente il movimento politico di Drašković apparteneva a quelle forze di destra e nazionaliste che emersero in Jugoslavia tra il 1989 ed il 1990. E fu anche a causa del proprio rabbioso nazionalismo che l’SPO perse le elezioni nel dicembre 1990. Infatti, in un clima di estrema incertezza, il Partito socialista serbo (gli ex comunisti) seppe offrire ai propri elettori ciò di cui sentivano il bisogno, ossia di essere rassicurati, e lasciando temporaneamente da parte la retorica patriottica. Così, con lo slogan “con noi non ci sono incertezze”, i socialisti vinsero le elezioni e rimasero al potere.

Il 9 marzo 1991

L’SPO (il Movimento del rinnovamento serbo – Srpski pokret obnove), guidato da Vuk Drašković (giornalista e scrittore), nonostante lo scetticismo sulla regolarità delle elezioni del dicembre 1990, non dubitava seriamente della vittoria di Milošević. Ciò che veramente risultò detestabile per l’opposizione, fu la campagna mediatica successiva alle elezioni, tesa a denigrare ed attaccare costantemente l’SPO (ed altri partiti), ed in particolare Drašković.

La scintilla che fece esplodere la rabbia dell’opposizione fu un editoriale di Slavko Budihna, durante il telegiornale della sera, il 16 febbraio 1991, in cui Drašković venne accusato di avere contatti con l’HDZ, il partito nazionalista del Presidente della Croazia Franjo Tudjman. Budihna sostenne che l’SPO collaborava con l’estrema destra croata e con tutte le altre destre jugoslave a scapito dell’interesse dei serbi. Sempre secondo il giornalista, il partito di Drašković mirava a sfruttare il malcontento causato dalle pessime condizioni economiche nel paese, per destabilizzare la Serbia e creare uno scenario analogo a quello del Cile (il golpe di Pinochet contro Allende del 1973) o della Romania (la rivoluzione romena del dicembre 1989), ovvero una rivoluzione contro il regime. L’editoriale venne prontamente ripreso anche da uno dei maggiori quotidiani belgradesi.

Drašković, adirato, chiese il diritto di replica, ed il 20 febbraio proclamò la manifestazione del 9 marzo, il cui scopo era “l’assalto della TV Bastiglia”, ossia la TV di stato, oltre alle dimissioni del direttore, Dusan Mitević. Il leader dell’opposizione proclamò che la manifestazione si sarebbe tenuta in Piazza della Repubblica, nel centro di Belgrado, e da lì si sarebbero diretti verso “la Bastiglia”, nella via Takovska. Il governo della Serbia mise in guardia l’SPO, tuonando che non avrebbe permesso delle violente manifestazioni nel cuore della capitale. Drašković tuttavia sfidò il divieto imposto dal governo.

Il 9 marzo 1991, circa centomila persone (le stime variano, a seconda delle fonti, tra le quarantamila e le centomila persone), guidate da Vuk Drašković, tennero sotto scacco, per ore, il centro della capitale jugoslava, Belgrado. In piazza della Repubblica, davanti al teatro nazionale, si tenne una vera e propria guerriglia urbana. Due persone, un ragazzo di 17 anni ed un poliziotto, persero la vita, e molti altri vennero feriti nel corso degli scontri.

In questo clima di eccitazione e rivolta, i vertici politici della Serbia, sebbene terrificati da quanto stava accadendo nel pieno centro della capitale, riuscirono a reagire e neutralizzare il pericolo. Borisav Jović, all’epoca braccio destro di Milošević, ricopriva la carica di Presidente della presidenza della Repubblica socialista di Jugoslavia. Dopo intense sollecitazioni ai suoi colleghi della presidenza collegiale, riuscì ad ottenere i voti della maggioranza per poter inviare l’Armata popolare jugoslava a Belgrado, con l’obiettivo di riportare l’ordine e bloccare gli insorti. Così, i carri armati dell’esercito, alle 19:30, presero posizione davanti alle principali istituzioni della Serbia e, in breve tempo, i dimostranti si dispersero. Era dai tempi della Seconda guerra mondiale che l’esercito non veniva impiegato nella capitale jugoslava. Per dirla con lo storico Josip Krulić, “Tito non aveva mai fatto, in nessuna occasione” ricorso all’esercito per risolvere una crisi politica in Jugoslavia. Nel corso della notte i dimostranti vennero dispersi, e Drašković (assieme ad altri esponenti del suo partito) venne arrestato.

L’indomani, nel pomeriggio, l’esercito si ritirò dalla città, ed iniziò la protesta degli studenti a Terazije (nel centro di Belgrado). A Terazije, attorno alla fontana ottocentesca, per giorni decine di migliaia di persone si radunarono, realizzando dei dibattiti e interventi di noti intellettuali. Quel luogo divenne il centro della loro protesta nei dieci giorni successivi, e venne chiamato “il parlamento di Terazije”. L’occupazione di Terazije durò complessivamente dieci giorni e, al suo apice, riuscì ad attrarre circa mezzo milione di manifestanti. Oltre al rilascio degli arrestati, gli studenti domandarono le dimissioni del ministro degli interni e di alcuni direttori dei media controllati dallo Stato.

I media sotto il controllo del regime, invece, cercarono di sostenere il consenso nei confronti del governo richiamando le memorie della Seconda Guerra Mondiale. L’11 marzo si tenne una contromanifestazione filo-governativa ad Ušće, dove “gli studenti vennero dipinti come dei traditori”. Alla manifestazione parteciparono circa trentamila persone, radunate in larga misura dalle aziende pubbliche, e trasportate a Belgrado da tutta la Serbia. Uno degli elementi salienti è che i partecipanti erano persone anziane (“i più giovani erano ampiamente al di sopra dei sessant’anni”, scrive Stevanović), in netto contrasto con i manifestanti di Terazije. Una parte consistente dei manifestanti era composta da pensionati, ex veterani di guerra e funzionari statali o del partito di governo. Ad ogni modo, la differenza generazionale tra coloro che sostenevano Milošević, da un parte, e coloro che manifestarono sostegno a Drašković, dall’altra, fu talmente evidente che il quotidiano Borba titolò che i genitori erano ad Ušće, mentre i figli erano a Terazije.

Borisav Jović ricorderà in seguito che il 9 marzo Milošević avrebbe potuto subire la stessa sorte di Nicolae Ceaușescu. Egli reputava che l’opposizione, nelle elezioni del dicembre 1990, oltre a perdere, non vi prese neppure seriamente parte, nella speranza di raggiungere i propri obiettivi attraverso la mobilitazione delle piazze, inscenando uno scenario “rumeno”, contando sul supporto dell’Occidente. Alla presa della TV di stato serba, avrebbe dovuto far seguito il controllo del potere e delle istituzioni.

A causa di forti pressioni, il governo decise di rilasciare Drašković (venne liberato il 13 marzo), mentre il 12 marzo il Ministro degli interni rassegnò le dimissioni, così come alcuni dirigenti della Radio Televisione della Serbia, Mitević incluso. In pratica vennero realizzate tutte le richieste degli studenti, tuttavia i funzionari destituiti vennero sostituiti da altri esponenti del regime ancora più rigidi dei loro predecessori.

Gli eventi traumatici dipanatisi durante il 9-10 marzo, e la successiva reazione da parte del governo serbo, si intersecarono con la crisi politica in atto in Jugoslavia. Tra il 12 ed il 15 marzo, la Presidenza federale, su iniziativa di Jović, ispirato da Milošević e dal generale Veljko Kadijević, tenne una serie di burrascose e irrituali riunioni. Kadijević propose ai membri della presidenza jugoslava di dichiarare lo stato d’emergenza a livello federale, atto che avrebbe garantito all’Armata popolare ampi poteri. Kadijević, supportato da Jović, reputava che fosse necessario difendersi dai “nemici del socialismo e di una Jugoslavia unita.” In altri termini, ciò che si stava cercando di ottenere era una presa del potere da parte dell’Armata popolare jugoslava, un colpo di stato insomma, suffragato dalla Serbia. Ma, nonostante le pressioni, la Presidenza non riuscì a raggiungere la maggioranza (per via del diniego del rappresentante bosniaco). Il tentativo di realizzare il colpo di stato dei militari naufragò.

In seguito al mancato golpe, Milošević cambiò strategia. Era la seconda volta (la prima fu nel gennaio 1991), che la Serbia cercava di favorire un golpe militare a livello federale. Jović in seguito disse, riferendosi al mancato putsch di marzo, che “con tutto ciò che era accaduto durante il fine settimana [9-10 marzo 1991] questa era la nostra ultima opportunità”. Il 16 marzo, essendo fallito il giorno precedente il suo tentativo di favorire un colpo di stato dell’esercito federale, Milošević, in un discorso alla TV, ordinò “la mobilitazione dei riservisti speciali e la formazione urgente di altre unità della milizia serba”. Inoltre, cosa ancora più rilevante, comunicò che la Jugoslavia è entrata nella sua fase finale d’agonia. La Repubblica di Serbia non riconoscerà più nessuna decisione raggiunta dalla Presidenza [federale] nelle circostanze esistenti perché sarebbe illegale. […] La Jugoslavia […] è finita.”

25 anni dopo

A distanza di un quarto di secolo da quegli eventi, Drašković ha rilasciato una lunga intervista in cui sostiene che le dinamiche del “9 marzo” iniziarono prima di allora, e si protrassero per l’intero decennio. Drašković sostiene che i serbi, venticinque anni addietro, non seppero “riconoscere la realtà”, diventando così “ostaggi di sé stessi”, e divenendo gli ignari difensori del regime comunista di Milošević e dei generali dell’Armata popolare jugoslava, che nel frattempo avevano abbandonato le insegne formali del socialismo, per sostituirle scaltramente con i simboli del nazionalismo serbo. Drašković definisce questo processo come “la più tragica lobotomia del popolo serbo in tutta la sua storia”, puntando il dito quindi sull’ingenuità del popolo serbo di non essere stato in grado di riconoscere l’inganno al quale venne sottoposto da parte delle élites politiche e militari del regime socialista, che si riciclarono ideologicamente pur di restare in sella al potere.

Gli eventi del 9 marzo 1991 furono una forma di protesta da parte dell’opposizione politica in Serbia contro il controllo estensivo dei media da parte del governo, dominato dagli ex comunisti. Nelle intenzioni degli organizzatori, non è sostanzialmente possibile rilevare l’obiettivo di rovesciare, tramite la protesta popolare, le istituzioni ed il governo, perché sia nelle dichiarazioni, che nei fatti, e negli effettivi rapporti di forza, le richieste ruotavano attorno ad un maggiore pluralismo nei mezzi di informazione.

L’aspra reazione della polizia nel corso della giornata e l’intervento dell’Armata popolare jugoslava a difesa del regime di Milošević, concesso con riluttanza dal vertice federale, non hanno impedito l’estendersi della protesta agli studenti. Per la prima volta dal 1987, il potere di Milošević parve vacillare, tuttavia, in ultima istanza, ebbe la meglio, perché godeva di un forte sostegno popolare nel paese, e perché le forze armate rimasero fedeli alle istituzioni. L’isteria nazionalista propagandata nei media di regime, contribuì a compattare e omogeneizzare l’opinione pubblica, indebolendo il sostegno verso il dissenso.

A distanza di 25 anni, gli eventi del 9 marzo hanno assunto una scarsa rilevanza nell’opinione pubblica, e comunque, col senno del poi, vengono spesso ritenuti sia come un’occasione mancata per rimuovere Milošević dal potere, ed evitare così un decennio di guerre jugoslave, ma anche il simbolo delle proteste contro il regime che seguirono successivamente. Vuk Drašković, oggi, nega la prima ipotesi, sostenendo che sarebbe stato impossibile in quel marzo 1991 destituire Milošević, ma allo stesso tempo sostiene con forza la seconda interpretazione, attribuendo a quegli eventi storici di mobilitazione popolare un’importanza basilare come simbolo di resistenza contro gli abusi di un regime autoritario. Indubbiamente l’interpretazione degli eventi del passato è fortemente influenzata dalle esigenze e dalle necessità del presente, così come le scelte politiche di Drašković non furono lineari e consistenti nel corso della sua carriera politica, nell’ultimo quarto di secolo, basti pensare alla collusione con il regime di Milošević verso la fine degli anni ‘90. Inoltre, nel complesso, le memorie di Drašković, oltre ad una certa indulgenza verso sé stesso, rivelano delle discrepanze con l’interpretazione storica. Infatti l’odierna tesi di Drašković, secondo cui le proteste del 9 marzo furono palesemente in favore di un percorso della Serbia verso l’Europa, non corrispondono al vero, perché la linea adottata dal carismatico leader dell’opposizione all’epoca era decisamente ambigua e, anzi, pareva rivolta, a tratti, verso la Russia ed i paesi ortodossi. Il percorso della Serbia verso l’Unione Europea è un tema relativamente recente, che si è consolidato verso la fine dello scorso decennio. Nel 1991, l’SPO aveva un orientamento ideologico in parte ambiguo, indubbiamente orientato verso un nazionalismo romantico, ed esaltante l’epopea del movimento cetnico durante la Seconda guerra mondiale, connotato da tratti fortemente anti-comunisti (in linea con altri movimenti democratici dell’Europa orientale in quel momento storico), e venature pacifiste (Drašković spronò i propri simpatizzanti a disertare l’esercito federale jugoslavo), contraddette però dalla ingombrante presenza del gruppo di paramilitari afferenti al partito, che combatterono successivamente in Croazia ed in Bosnia ed Erzegovina. In virtù di ciò, è dunque arduo immaginare cosa sarebbe realmente potuto accadere alla Jugoslavia, se Drašković fosse riuscito, suo malgrado, a destituire Milošević, durante le proteste belgradesi del marzo 1991.

Dunque, se da un lato, storicamente, le manifestazioni del 9 marzo furono la prima autentica protesta interna alla Serbia, contro un sistema di potere autoritario, d’altro canto, nella memoria, prevale il senso di occasione mancata, forse sprecata, per frenare la deriva militaristica che stava assumendo la Serbia in Jugoslavia. E, con tale nostalgia, ignota peraltro al di fuori della Serbia stessa, sopravvive il mito dell’ultima possibilità di salvare la Jugoslavia, e risparmiare a milioni di jugoslavi un decennio di sofferenze e isolamento.

Foto: B92

Chi è Christian Costamagna

Christian Costamagna, classe 1979, ha insegnato presso l'Università del Piemonte orientale nell'anno accademico 2014-2015 (corso di Storia contemporanea e dell’Europa Orientale) dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Storiche. Nella tesi di dottorato si è occupato dell’ascesa al potere di Slobodan Milosevic nella seconda metà degli anni ’80. Ha svolto ricerche d’archivio a Belgrado e Lubiana. I suoi articoli sono apparsi su East Journal, Geopolitical Review. Geopolitica – Rivista dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, Mente Politica, European Western Balkans, e sul “LSE blog about South Eastern Europe”. Costamagna è consulting analyst per Wikistrat.

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