L’Eurasia di Slavs and Tatars. Arte, umorismo e laboratorio di ricerca

Ben vengano gli artisti ibridi, quelli che cercano contaminazioni con altre discipline, per uscire dai confini dell’arte fine a se stessa e mettere in discussione convenzioni e convinzioni. Ciò è inevitabile se a costituire fonte di ispirazione e laboratorio di ricerca storico-antropologica è una vasta area geografica di cui si vogliono raccontare trasformazioni politiche e transizioni di popoli, culture ed epoche diverse al pubblico contemporaneo, soprattutto quello occidentale. Questo in sintesi l’ambizioso progetto del collettivo artistico Slavs and Tatars, autodefinitosi come “una fazione di polemiche e intimità dedicata all’area ad est dell’ex Muro di Berlino e ad ovest della Grande Muraglia cinese, conosciuta come Eurasia”.

Nato nel 2006 da un duo polacco-iraniano, il collettivo, che preferisce non rivelare le singole identità dei suoi membri, è cresciuto negli anni rendendosi famoso grazie ad un approccio interdisciplinare che combina mostre, pubblicazioni e conferenze performative. Questi archeologi di tutti i giorni giocano soprattutto su associazioni più o meno dirette, umorismo ed emozioni, e considerano l’arte come un mezzo per parlare di questioni complesse. Al modo del leggendario saggio-pazzo medievale Molla Nasreddin, personaggio che ispirò l’omonima rivista satirica azera (1906-30), e rappresentato dagli artisti in chiave antimodernista in groppa ad un asino al contrario (2012), Slavs and Tatars guardano al passato “per anticipare, immaginare o rimpiangere un futuro impossibile”.

Interessati sopratutto a concetti come identità, fede, nation building e preservazione della storia, tre sono fino ad oggi i principali cicli tematici esplorati nelle loro opere: dalla celebrazione della complessità del Caucaso, all’improbabile eredità tra Polonia ed Iran fino all’attuale ricerca attorno al ruolo rivoluzionario del sacro e del sincretico. In particolare, è la ricerca linguistica a giocare un ruolo importante: una lingua non è un mero sistema razionale di transazione e comunicazione, “nasconde tanto quanto rivela” e a loro giudizio va rivisitata come forma di “ospitalità sacra”. Molteplici sono infatti le opere dedicate agli alfabeti dell’area, alle riforme linguistiche intraprese nel XX secolo o alla fonetica, così come a poeti e scrittori.

Raccontare estensivamente la loro prolifica attività in un breve articolo è impresa impossibile, ma già alcune opere introducono alla loro visione del mondo. Come ad esempio il primo lavoro Slavs, ovvero un piccolo poster-manifesto che intende evocare l’affinità culturale esistente nel vasto territorio dell’est Europa, ignorando confini geografici e rigide classificazioni accademiche.

Nel 2009 la scena artistica internazionale li scopre grazie alla serie Kidnapping Mountains, un tributo all’alfabeto azero e all’identità georgiana, così come un’esigenza di soffermarsi su altre questioni geopolitico-culturali dell’area. Sempre nello stesso anno, rifacendosi ad un’iconografia hollywoodiana, il cartellone Idź na Wschód! Go East! affisso nel centro di Varsavia, riportava alla memoria il ruolo dei tatari polacchi nella creazione dell’attuale identità nazionale del Paese. Nel progetto Hymns of No Resistance invece, è attraverso classici della musica pop riarrangiati da Berivan Kaya e da The Orient Orchestra che si affrontano questioni come la diaspora armena, l’identità curda, il conflitto russo-georgiano del 2008 e la toponomastica.

La pubblicazione 79.89.09 (2011) crea un collegamento tra date simboliche a livello mondiale: la Rivoluzione Iraniana (1979), la caduta del comunismo (1989), tema poi ripreso in Friendship of Nations: Polish Shi’ite Showbiz con focus sull’esperienza di Solidarność, e i prodromi della crisi finanziaria (2009). Un mix accattivante di foto d’epoca, documenti ufficiali, citazioni e fotomontaggi per capire meglio il mondo in cui viviamo.

Mirrors for Princes (2015) si presenta come raccolta di scritti e saggi di prominenti ricercatori che, ricollegandosi alla letteratura didascalica stile “Il Principe” di Machiavelli, genere condiviso dal mondo cristiano e da quello musulmano, tratta del delicato equilibrio tra isolamento e società, e tra spirito e stato. Sempre recente è la pubblicazione e installazione Qit Qat Qlub (2015) che, rievocando un brindisi a Damasco dell’imperatore Guglielmo II nel 1898 per celebrare l’alleanza con Abdul Hamid II e ripescando dal dimenticatoio il giornale propagandistico El-Dschihad indirizzato ai prigionieri di guerra musulmani in Germania, analizza il rapporto tra cultura e politica tedesca rispetto all’est e all’orientalismo.

E questo è solo un assaggio, chissà quali altri temi verranno affrontati nei prossimi anni. La vastità e la ricchezza della loro amata Eurasia fanno sperare che Slavs and Tatars continuino la loro attività di aedi dei nostri tempi, attingendo ad un’epica ancora poco conosciuta in Occidente e dandone diverse, a volte insolite, chiavi di lettura.

Foto: Matthew Black. Reverse Joy (2013), Slavs and Tatars

Chi è Francesca La Vigna

Dopo la laurea in Cooperazione e Sviluppo presso La Sapienza di Roma emigra a Berlino nel 2009. Si occupa per anni di progettazione in ambito culturale e di formazione, e scopre il fascino dell'Europa centro-orientale. Da sempre appassionata di arte, si rimette sui libri e nel 2017 ottiene un master in Management della Cultura dall'Università Viadrina di Francoforte (Oder). Per East Journal scrive di argomenti culturali a tutto tondo.

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