Il 16 aprile 1896, 120 anni fa, a Solt, un piccolo villaggio dell’Ungheria, nasceva Árpád Weisz, uno dei più grandi allenatori di calcio dell’epoca moderna. Weisz, ungherese di origine ebrea, è diventato particolarmente famoso in Italia dove ha allenato con successo Inter e Bologna. La vita di Árpád Weisz non si lega però solamente ai successi sportivi, ma anche ai drammatici fatti che sconvolsero l’Europa degli anni ’30 e ’40: le leggi razziali, la guerra e l’olocausto.
Il calcio magiaro viene da molti ricordato in particolare per le imprese della “squadra d’oro” di Puskás, che negli anni ’50 raggiunse l’apice del calcio mondiale, ma già molti anni prima l’Ungheria era una avanguardia calcistica. Negli anni ’20 e ’30 infatti il gioco dei magiari, e in particolare gli allenatori d’Ungheria, erano famosi in tutto il mondo, particolarmente in Italia. Basti pensare che in quegli anni la metà degli allenatori della Serie A erano di origine ungherese. La storia dei calciatori e degli allenatori ungheresi in Italia è stata magistralmente raccontata da Gábor Andreides nel libro Amikor még mi voltunk az olaszok (Quando ancora eravamo noi gli italiani) che ha narrato le imprese dei magiari nei campionati italiani durante il fascismo. Ma la storia di Weisz si leva sopra quella degli altri, per i suoi successi da allenatore e per la tragicità della sua storia, raccontata nel libro di Matteo Marani Dallo scudetto ad Auschwitz (edito nel 2007 da Aliberti).
Árpád Weisz arriva in Italia nel 1924, anche se sarebbe più corretto dire “torna”, visto che durante la prima guerra mondiale aveva combattuto sul Carso ed era stato fatto prigioniero dall’esercito italiano. Nel 1924 giocava a Brno, in Cecoslovacchia, quando viene notato e acquistato dal Padova. Qui l’ala destra magiara, giocherà appena sei partite, perché a chiamarlo sarà l’Inter. Weisz si innamora subito di Milano, nella quale ritorna pochi anni dopo da allenatore. A 34 anni è il tecnico più giovane di sempre a vincere la Serie A (1929-1930), record ancora imbattuto. A Milano promuove titolare Giuseppe Meazza, destinato a divenire il primo mito calcistico d’Italia. Weisz impressiona il mondo del calcio attraverso strategie e tattiche innovative, ma anche grazie ad una maniera totalmente nuova di approcciarsi ai calciatori.
Ma questi sono gli anni ’30 quelli del regime fascista, dell’anticomunismo e delle leggi razziali. Anni in cui bisognava adattare i propri nomi alle ideologie del potere, così come l’Inter sarà costretta ad assumere la denominazione di Ambrosiana, Weisz italianizza il suo nome in Veisz: la W non era una lettera gradita al regime, come neanche gli ebrei. Nonostante questo però lui continua ad allenare e mietere successi in Italia e all’estero. Il suo nome è legato particolarmente ai successi del Bologna, squadra che allena dal 1935 al 1937 e con la quale conquista 2 scudetti e una Coppa Expo a Parigi, battendo per 4 a 1 il Chelsea. Il Bologna di quegli anni, “lo squadrone che tremare il mondo fa”, è creatura dell’allenatore magiaro.
Nonostante le vittorie però Weisz è costretto a lasciare il posto di allenatore prima e l’Italia poi, a causa delle leggi razziali. Con la sua famiglia si stabilizza in Olanda dove continua ad allenare, ma gli orrori della guerra e dell’olocausto travolgono lui e la sua famiglia. La Germania nazista invade l’Olanda, sua moglie e i suoi due figli vengono mandati a morire a Birkenau. Lui poco più che quarantenne viene utilizzato dai nazisti come lavoratore nelle fonderie, prima di essere spedito ad Auschwitz, dove troverà la morte nel 1944.
Il nome di Árpád Weisz dopo la seconda guerra mondiale cadrà nell’oblio, verrà relegato negli annuari calcistici come un allenatore come tanti. Solamente negli ultimi anni, grazie a un rinnovato interesse di studiosi e delle società dell’Inter e del Bologna, il suo nome e il suo ricordo hanno avuto lo spazio meritato. Dal 2012 è possibile trovare una targa in sua memoria a San Siro e al Dall’Ara, mentre le due squadre gli hanno dedicato la partita dei quarti di finale di Coppa Italia del 2013. Inoltre il libro di Marani e il documentario di Federico Buffa (qui) hanno contribuito a fare conoscere al grande pubblico la storia di questo uomo, protagonista dei momenti più belli del calcio di inizio secolo come delle più grandi tragedie del Novecento.