Da Belgrado – La sentenza di assoluzione del 31 marzo scorso, con la quale Vojislav Šešelj, leader del Partito Radicale Serbo, è stato liberato da parte del Tribunale dell’Aia, non solo ha ridato linfa alle critiche contro il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY), ma sembra poter rilanciare la popolarità dello stesso Šešelj, anche alla luce delle elezioni parlamentari previste per il 24 aprile.
Sin da quando il tribunale gli aveva concesso la libertà provvisoria, affinché potesse curarsi dal tumore che lo ha colpito durante il periodo di detenzione all’Aja, il “vojvoda” (titolo cetnico che sta per “guida”) era stato accolto come “vincitore”. I suoi fedelissimi sostenitori, infatti, negli anni di detenzione, hanno coltivato un vero e proprio culto nei confronti del proprio leader, considerato come una vittima di un tribunale definito “criminale” ed istituito per volere dell’occidente.
Nell’arco di questi 13 anni, il vojvoda si è comportato, di fatto, da vero leader politico piuttosto che da criminale di guerra. A differenza di Radovan Karadžić, latitante per 12 anni, Šešelj non si è mai nascosto, non è mai scappato, ma si è consegnato spontaneamente, convinto della propria innocenza. Inoltre, il leader radicale non ha mai richiesto la tutela di un avvocato, preferendo difendersi da solo, non senza dare spazio ad argomentazioni storiche di carattere nazionalista, tanto fuori luogo quanto difficilmente controvertibili da parte di giudici poco preparati sulla storia dei Balcani. Come se non bastasse, Šešelj si è più volte preso gioco della corte, arrivando pure a volgari insulti a danno dei giudici.
Tutti questi elementi non hanno fatto altro che rafforzare la sua popolarità in patria, anche tra coloro che non lo sostengono ma che comunque vedono in lui una persona perversamente furba ed intelligente, abile nel tener testa ad una corte che per 13 anni lo ha accusato di alcuni dei più gravi episodi di pulizia etnica delle guerre jugoslave, senza tuttavia riuscire a condannarlo.
Per quanto riguarda il verdetto della corte, la sentenza di assoluzione interpreta in modo molto logico il principio giuridico per il quale l’accusato può essere condannato solo quando il capo d’accusa viene provato “oltre ogni ragionevole dubbio”, ovvero quando le prove e le testimonianze circa un reato risultano determinanti nel definire la colpevolezza dell’imputato. I capi d’accusa che pendevano su Šešelj erano nove, di cui tre per crimini contro l’umanità (persecuzione, deportazione e trasferimento forzato) e sei per crimini di guerra (omicidio, tortura e trattamento crudele, distruzione gratuita e insensata, distruzione o volontario danneggiamento a istituzioni confini religiosi o educativi, saccheggio di proprietà pubblica e privata).
Per ogni reato, l’accusa non ha saputo fornire prove sufficienti che il ruolo di Šešelj come leader del Partito radicale serbo o i suoi discorsi abbiano indirizzato direttamente i miliziani nel commettere i crimini. In altre parole, la corte ha riconosciuto in Šešelj un ruolo meramente politico, e non anche militare come nel caso di Karadžić, e non è stata in grado di provare una responsabilità diretta per i crimini commessi dai paramilitari come conseguenza della retorica del leader radicale. Una sentenza di condanna, infatti, avrebbe avuto un carattere e una motivazione politici, principio che nulla ha a che fare col diritto, in quanto si sarebbe condannato un intento politico.
Secondo questo ragionamento, ne consegue che la Corte, de facto, ha giustificato tutta la retorica che sta alla base della “Grande Serbia”. Quest’idea è da sempre il cavallo di battaglia del vojvoda e la sentenza di assoluzione non fa altro che rinvigorirla. Essa si basa su diversi elementi storici, alcuni di carattere risorgimentale e patriottico, ma senza la corretta contestualizzazione, come accadde negli anni Novanta non fa che risultare in una retorica nazionalista e violenta, la cui strumentalizzazione politica ha di fatto contribuito allo sfacelo dell’unità jugoslava.
La “vittoria” di Šešelj è una vittoria parziale anche del suo progetto politico, che ridisegna i confini della Serbia lungo l’asse che va da Virovitica, passa per Karlovac e Ogulin e arriva a Karlopag, sul mar adriatico. Il verdetto dell’Aja ha dunque riabilitato questa idea politica. In questo senso, è giusto interpretare quella del tribunale come una sconfitta, e quella di Šešelj come una vittoria.
In generale, la sentenza di assoluzione getta ulteriore discredito sulla credibilità della corte, nonché sulla sua capacità di contribuire in modo coerente, equidistante ed imparziale a condannare le cause che portarono al collasso della Jugoslavia. Come nei casi di Ante Gotovina, assolto in ultimo grado dopo le condanne nei due gradi di giudizio precedenti, e Naser Orić, assolto in appello da tutte le accuse, il tribunale internazionale sembra non fornire gli elementi per una giustizia accettabile da tutte le componenti nazionali della regione jugoslava. Sia Gotovina che Orić sono tornati in patria da “eroi”, ed allo stesso modo è accaduto per Šešelj, alimentando le idee nazionaliste di coloro che l’hanno sempre sostenuto come “l’uomo più intelligente del popolo serbo”.
La “vittoria” del leader nazionalista avrà ora la possibilità di tradursi in vittoria politica, qualora venissero confermate le previsioni dei sondaggi che vedono il Partito Radicale Serbo al di sopra dello sbarramento del 5% per le imminenti elezioni. Il programma politico del partito, che ben poco offre in termini economici e sociali, si basa per lo più sulla figura di martire vincitore incarnata dal suo presidente. Quanto siano più importanti le questioni di carattere nazionalista, piuttosto che le reali condizioni economiche e sociali del popolo serbo, sarà determinato dal popolo serbo stesso.