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CALCIO: I ribelli del calcio siriano, una nazionale in esilio

Mentre la Siria è ancora in corsa per la qualificazione alla Coppa del Mondo del 2018, l’altra metà del calcio siriano, in esilio dai propri confini, tenta di costruirsi un’identità e un futuro. L’opposizione antigovernativa è rappresentata nel calcio dalle cosiddette “nazionali della Siria libera”: il colore delle maglie – su cui non compare il nome dei giocatori, ma soltanto la scritta Syria – è il verde, simbolo cromatico della rivoluzione. La prima nazionale alternativa nacque in Libano nel 2014; quella tuttora più strutturata è sorta in Turchia nel corso del 2015, stabilendosi dapprima a Kilis (in prossimità del confine con la Siria), poi a Mersin, importante porto sul Mediterraneo, e infine a Gaziantep, nell’Anatolia sud-orientale. La squadra conta 25 calciatori, tutti ex professionisti del campionato maggiore siriano.

La città turca di Gaziantep – la cui squadra di calcio è quel Gaziantepspor che fu allenato nel 2006 da Walter Zenga – si trova a soli 120 chilometri a nord di Aleppo ed è oggi rifugio di centinaia di migliaia di profughi siriani. Per la sua posizione strategica è sovente anche luogo di scontri ed esecuzioni: in un recente fatto di sangue è stata indirettamente coinvolta anche la nazionale di calcio dei “ribelli”. Il 27 dicembre 2015 nel centro di Gaziantep è stato assassinato da membri dello Stato Islamico Naji al-Jarf, giornalista e attivista antigovernativo e al contempo ostile all’ISIS, legato all’organizzazione clandestina Raqqa is being slaughtered silently. Al-Jarf era un sostenitore della nazionale di calcio alternativa, a cui aveva procurato i primi aiuti economici. La squadra ha così perso un’importante figura di riferimento in concomitanza con la cessazione della sponsorizzazione da parte della fondazione di Abdulkader Sankari, uomo d’affari con uffici in Dubai. La fondazione di Sankari aveva infatti garantito 30.000 dollari al mese ai ribelli in calzoncini, somma da cui venivano attinti 500 dollari mensili assegnati a ciascun giocatore.

Un ulteriore problema che affligge questi esuli del calcio siriano è quello dell’impossibilità di disputare partite ufficiali, nonostante la richiesta alla FIFA di ottenimento dello status di nazionale riconosciuta. La richiesta è stata avanzata dal fondatore della compagine Orwa Kanawati, responsabile della Commissione Generale per lo Sport e la Gioventù, un’organizzazione con base in Turchia che ha come scopo la promozione di iniziative per lo sport siriano. La richiesta non ha trovato riscontro e difficilmente potrà mai ottenerlo. Sinora le partite disputate dalla nazionale “alternativa” sono state soltanto quattro, tutte amichevoli e giocate a porte chiuse, contro squadre turche minori.

Il capitano della squadra è Firas al-Ali, nativo di Hama (150 km a sud di Aleppo) ed ex giocatore dell’al-Shorta di Damasco, la squadra della polizia. Agli albori della guerra civile ha deciso di abbandonare le relative comodità della vita di calciatore professionista a Damasco, unendosi alle proteste di piazza ad Hama, rapidamente sedate. È quindi emigrato in Giordania e poi in Turchia, dove oggi vive nel campo profughi di Karkamiș, nei pressi del fiume Eufrate e a poche centinaia di metri dal confine siriano. Da lì capitan Firas percorre quasi ogni giorno un centinaio di chilometri per raggiungere Gaziantep dove si allena con i compagni di squadra e di rivoluzione.

Basel Hamdoun, il calciatore più anziano della nazionale ribelle, giocava per l’al-Nawair, club della città di Hama. Quest’ultima fu teatro nel 1982 di una dura repressione, orchestrata da Hafiz al-Assad, padre di Bashar, e dal fratello Rifaat, contro una rivolta della popolazione locale sunnita guidata dai Fratelli Musulmani. Morirono in molte migliaia sotto i colpi di artiglieria dell’esercito, che distrussero anche buona parte del patrimonio artistico di Hama: una situazione che, a bandiere invertite, riflette i recenti eventi di Palmira. Altri giocatori della nazionale alternativa – come Mohammad Sharabati – militavano per l’al-Ittihad di Aleppo, che disputava i propri incontri casalinghi nello stadio internazionale della città, diventato durante la guerra civile in corso una base militare delle forze governative. Il luogo della condivisione collettiva di un momento ludico che diviene strumento di divisione e di morte: è un altro fil rouge della storia.

Vi è infine chi – pur affine, anche se da un versante più radicale, alle posizioni ideologiche della nazionale degli esuli – non vi ha mai giocato, e ha invece indossato la maglia della nazionale siriana “ufficiale”. È il caso di Abdul Basset al-Sarout, ex portiere della Siria under 20 e dell’al-Karamah di Homs. Per Sarout il richiamo dell’ideologia rivoluzionaria è però valso più del sogno di un futuro sportivo: abbandonati i campi di gioco, è divenuto leader carismatico delle rivolte a Homs, nonché cantore della rivoluzione. Il documentario Ritorno a Homs del regista Talal Derki, vincitore nel 2014 del Gran Premio della Giuria al prestigioso Sundance Festival, ha come protagonista proprio l’ex portiere Sarout che, sebbene più volte ferito, ha condotto la propria milizia (i “martiri di Bayada”) negli scontri contro l’esercito siriano e in combattimenti interni alle forze di opposizione. Nel novembre 2015 il gruppo di Sarout, accusato di affiliazione all’ISIS, è stato attaccato dalla brigata al-Nusra, costola siriana di al-Qaida già artefice del sequestro del giornalista piemontese Domenico Quirico.

Nello spirito dei combattenti di cui Sarout è simbolo ed icona, il calcio ha perso sia il significato di anelito sportivo, sia il suo deteriore ruolo di strumento di propaganda, cui Assad l’ha talvolta piegato. È così divenuto nient’altro che il ricordo di un passato materiale, distante dal miraggio di una rivoluzione trascendente e totalizzante, alla quale asservire le vite degli altri e anche la propria. Dinanzi a quell’ideologia che propugna odio per ogni impurità terrena, il calcio è solo un cordone ombelicale da recidere, come Sarout ha fatto.

La Siria è, oggi, tutto questo. La guerra fratricida, l’esilio dei profughi, le alleanze geopolitiche, le storie umane, di ribellione di fanatismo di vita di morte. Le vicende degli ultimi anni di calcio siriano e delle sue due nazionali sono lo specchio di un conflitto che sta dilaniando un paese e allungando un’ombra tetra sul futuro del medio Oriente e del mondo intero. Scavando nei meandri del calcio siriano non otteniamo risposte, ma possiamo disporre di un’ulteriore chiave di lettura. Che lo sport sia anche un fatto politico già lo disse, tra i tanti, lo studioso J.M. Hoberman anni orsono: tale inscindibile connubio vale anche per la Siria, epicentro del mondo, teatro di barbarie e di sogni, anno 2016.

Foto: Facebook

Chi è Paolo Reineri

Nato nel 1983, torinese. E’ avvocato dal 2009. Appassionato di sport con particolare interesse per i suoi risvolti sociali, ha affiancato alla propria attività professionale l’approfondimento delle tematiche e delle vicende, sportive e non solo, dell’area est-europea, collaborando anche con l’emittente Radio Flash e con la rivista Fan’s Magazine.

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