articolo pubblicato sul sito de Il Giornale
Le dimissioni “irrevocabili” di Razman Kadyrov da presidente della Cecenia, annunciate a sorpresa nelle scorse settimane, si sono rivelate l’ennesimo colpo di teatro del leader ceceno. In molti, dentro e fuori la repubblica caucasica, hanno creduto che Kadyrov fosse caduto in disgrazia presso il Cremlino ma sono bastate poche parole di Vladimir Putin a far capire che non era così. Putin non intende certo fare a meno dell’uomo che ha “normalizzato” la Cecenia e che ha dichiarato di voler essere “il cane da guardia del Cremlino” nella regione. Un cane da guardia che ha saputo emarginare le milizie islamiste che, durante le guerre cecene, hanno inserito la guerra per l’indipendenza cecena nella secolare lotta per la costituzione di un Emirato caucasico. Una lotta antica, che ha visto molte trasformazioni, ma che ha sempre avuto nella Cecenia la sua chiave di volta.
Alle origini dell’islamismo caucasico
La lotta islamica in Caucaso cominciò con la rivolta guidata da Mansur (1785 – 1791), sceicco della confraternita islamica (tariqaat) di ispirazione sufi detta Naqshbandiya, ancora oggi molto influente. Il ruolo delle tariqaat nel Caucaso è fondamentale: da una lato esprimono e conservano un Islam di tipo moderato, aperto al sincretismo con le culture locali; dall’altro diventano elemento identitario della popolazione. Negli ultimi decenni queste tariqaat soffrono la concorrenza di un Islam esogeno, quello wahabita, dal carattere fortemente radicale.
La resistenza di Mansur si concluse con una sconfitta. Come pure quella organizzata da Shamil, membro della stessa confraternita di Mansur, che tra il 1824 e il 1859 terrà testa ai russi proclamando lo jihad e diventando un eroe popolare. Capace di uscire dai confini tradizionali della famiglia e del clan, Shamil organizzò un embrione di stato ceceno che trovò nell’Islam legittimità e coerenza. Alla caduta dell’impero zarista fu un pronipote di Shamil a proclamare la nascita di un Emirato del Caucaso. I bolscevichi cercarono con ogni mezzo di estirpare l’elemento religioso, fino alla deportazione in Asia centrale ordinata da Stalin nel 1942. Lo spirito nazionale ceceno risorse con la caduta dell’Urss, legandosi nuovamente all’Islam. Furono quegli gli anni di Shamil Basaev, anch’egli membro della Naqshbandiya, responsabile dell’attentato al Teatro Dubrovka (2002) e di quello alla scuola di Beslan (2004). Sempre presente nei conflitti caucasici degli anni Novanta, dall’Abcasia al Nagorno-Karabakh, Basaev, si autoproclamò Emiro del Caucaso, facendo fare all’islamismo locale un salto di qualità. La sconfitta sovietica in Afghanistan aveva infatti motivato i musulmani radicali di tutto il mondo, e nel vicino Caucaso l’afflusso di mujaheddin fu notevole. Con loro arrivarono i denari sauditi e vennero fondate le prime scuole wahabite.
Il pugno di ferro di Kadyrov, alleato di Mosca, costrinse i fondamentalisti a lasciare la Cecenia spostando il conflitto in Daghestan e Inguscezia. Dopo la morte di Basaev fu Dokku Umarov a guidare l’Emirato caucasico compiendo altri attentati, come quello alla metropolitana di Mosca (2010) e all’aeroporto di Domodedovo (2011). L’omicidio di Umarov (2013) segnò il declino dell’Emirato caucasico e portò molti militanti a giurare fedeltà allo Stato Islamico, arruolandosi per combattere in Siria.
I caucasici dell’ISIS
Nel giugno 2013 le autorità russe denunciarono l’arruolamento di 1700 ceceni tra le fila dell’ISIS. A settembre dello stesso anno venne registrata la presenza del battaglione caucasico Al-Mukhadjirin (letteralmente “gli immigrati”) nella città do Aleppo, agli ordini dal ceceno Abu Abdurakhman. Secondo Musa Muradov, corrispondente del Kommersant, a rimpolpare il numero dei caucasici in Siria sono stati però i ceceni della diaspora, che lasciarono il paese durante la guerra trovando spesso asilo in Europa. L’importanza dei caucasici in Siria è testimoniata dal fatto che uno dei capi dell’ISIS sia stato Abu Umar al-Shishani, ucciso il 14 marzo scorso, il cui vero nome era Tarkhan Batirashvili, georgiano convertito all’Islam.
La presenza caucasica, e soprattutto cecena, nelle fila dell’ISIS si è accresciuta al punto da raggiungere le quattromila unità. Non a caso lo Human Rights Centre (HRC) “Memorial” ha registrato un notevole calo dell’attività terroristica nel Caucaso settentrionale proprio a causa dell’emigrazione di combattenti verso la Siria.
L’intervento russo al fianco di al-Assad ha anche lo scopo di colpire i molti gruppi islamisti provenienti dal Caucaso russo.
L’ISIS in Caucaso e le sfide di Mosca
Malgrado la partenza verso il fronte siriano, la presenza islamista nel Caucaso settentrionale resta notevole. I leader locali, abbandonato l’Emirato dopo la morte di Umarov, si sono alleati all’ISIS. Tra questi Suleiman Zailanabidov, comandante daghestano in forze all’Emirato, che ha giurato fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’ISIS, e con lui tutti i suoi uomini, attratto dalla capacità militare ed economica dei wahabiti. Dal canto suo al-Baghdadi ha proclamato il Caucaso settentrionale un wilāyah (governatorato) del Califfato.
Mosca si trova a dover rispondere all’islamismo caucasico con strategie diverse dal passato. Il rischio maggiore è una radicalizzazione delle popolazioni musulmane del Caucaso, tradizionalmente moderate, anche in virtù dei flussi di denaro che i fondamentalisti wahabiti portano nella regione. Il welfare wahabita può essere un’arma assai più efficace delle bombe, e una risposta militare non è sufficiente. Tuttavia la Cecenia è la chiave del Caucaso settentrionale, una regione che Mosca controlla con difficoltà. Una nuova guerra in Caucaso sarebbe difficilmente sostenibile per una Russia già impegnata sui fronti ucraino e siriano, e schiacciata dalle sanzioni. Proprio a quella guerra i fondamentalisti islamici puntano con ogni mezzo. Ecco allora che “cani da guardia” come Kadyrov diventano insostituibili.