L’opposizione al regime oppressivo di Abdülhamit II si concretizzò nella diffusione di un vasto movimento cospirativo composto dalle diverse società segrete attive a Istanbul e a Salonicco tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900. La più importante tra queste era senz’ombra di dubbio il Comitato d’unione e progresso (İttihat ve Terakkı Cemiyeti), i cui membri erano informalmente conosciuti come Giovani Turchi. Nel 1908 gli ufficiali legati al movimento dei Giovani Turchi rovesciarono il regime di Abdülhamit, ristabilirono la Costituzione e portarono il Comitato al potere. Nei primi anni prevalse l’anima moderata del movimento, che si ispirava alle riforme costituzionali ottocentesche e credeva in un’identità ottomana condivisa dalle diverse componenti etniche dell’impero. Dopo la disfatta delle Guerre Balcaniche (1912-1913) il regime costituzionale si trasformò di fatto in una dittatura militare del Comitato d’unione e progresso, sempre più orientato verso un aggressivo nazionalismo turco.
I Giovani Turchi ottennero alcuni buoni risultati nella loro attività riformatrice, sempre più ispirata da un radicalismo politico razionalista e positivista, ma l’evento più importante del loro governo fu la sciagurata decisione di entrare nella Prima Guerra Mondiale a fianco della Germania. La guerra si rivelò un’immane tragedia umana e un disastro militare. Nelle regioni orientali dell’Anatolia i Giovani Turchi si macchiarono anche dei famigerati massacri ai danni della popolazione armena, accusata di connivenza con il nemico russo. In realtà la decisione di deportare in massa gli armeni, causando così la morte di centinaia di migliaia di persone, non fu dovuta tanto al nazionalismo o al razzismo, quanto a una concezione perversa della ragion di stato. Fu certamente la pagina più oscura di tutta la storia turca. L’onore dell’impero, macchiato dalle sconfitte militari e dalle atrocità commesse, fu salvato solo dall’eroica vittoria ottenuta contro gli inglesi a Gallipoli (marzo-aprile 1915). In quell’occasione l’esercito ottomano era guidato da Mustafa Kemal, un ufficiale che aveva ricoperto un ruolo marginale nel movimento dei Giovani Turchi. Egli diede prova di essere un genio militare e dimostrò di cosa i turchi erano capaci se ben comandati e motivati dalla necessità di difendere la propria terra.
La capitolazione finale degli imperi centrali vide la formazione di un governo collaborazionista alla guida di un stato ottomano corrispondente ad una sorta di Turchia mutilata, dove si intendeva concedere ad armeni e curdi di creare i loro stati nazionali e alla Grecia di prendere possesso di gran parte della costa egea dell’Anatolia. Anche ciò che rimaneva sotto la teorica autorità del sultano fantoccio, sarebbe stato di fatto diviso in zone d’influenza tra le tre maggiori potenze europee uscite vittoriose dalla guerra: Gran Bretagna, Francia e Italia. Il sultano Mehmet VI Vahidettin – che riuscì a mantenere il potere piegandosi totalmente alla volontà degli alleati – inviò Mustafa Kemal in Anatolia, al fine di stroncare la sedizione delle truppe che non accettavano la fine delle ostilità e le umilianti condizioni di pace. Giunto al porto di Samsun sul mar nero, Kemal disobbedì all’ordine del sultano e si unì ai rivoltosi, diventandone in breve tempo il leader indiscusso. Mustafa Kemal si mise dunque alla testa di un grande movimento rivoluzionario, che rifiutava le pesanti condizioni imposte all’impero ottomano dagli alleati.
Tra l’estate e l’autunno del 1919 si tennero due congressi nazionali a Erzurum e a Sivas. Si ponevano così le basi per un vero e proprio contro-governo con sede ad Ankara, dominato dalla figura di Kemal, primo nucleo di un nuovo stato nazionale turco da cui sarebbe emersa la Turchia repubblicana. Nel frattempo Mustafa Kemal e i suoi collaboratori diedero il via a una vittoriosa guerra di liberazione nazionale. Il buon rapporto con la nascente Unione sovietica consentì di ridefinire i confini orientali secondo le tradizionali frontiere turco-russe. Finivano così i sogni armeni di creare un proprio stato nell’Anatolia orientale, mentre la Turchia rinunciava definitivamente alla regione turcofona dell’Azerbaigian nel Caucaso meridionale. Liberi di agire sul fronte occidentale, i nazionalisti turchi sconfissero la Grecia – a cui la Gran Bretagna aveva sostanzialmente affidato il compito di fare rispettare gli accordi del trattato di Sèvres – e arrivarono a riconquistare Smirne nel settembre del 1922. Il trattato di Losanna del 1923 riconobbe l’esistenza di uno stato nazionale turco con i confini all’incirca coincidenti con quelli attuali, e il conseguente scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia sancì la fine del mondo cosmopolita ottomano.
Archiviato anche formalmente quanto rimaneva dell’impero ottomano con la proclamazione della repubblica nel 1923, Kemal si apprestava a tagliare i ponti con la tradizione islamica. Un anno più tardi la Turchia aboliva il Califfato e proclamava l’assoluta laicità della giovane repubblica. L’Islam cessava di essere la religione di stato, e qualunque legame ufficiale con la Umma veniva in tal modo reciso. Con l’abolizione del Califfato anche la principale autorità normativa in ambito religioso, lo Şeyh-ül İslam, cessò di esistere e venne sostituita da un ufficio statale, il Diyanet İşleri Başkanlığı (letteralmente Presidenza degli affari religiosi, nel linguaggio comune viene spesso chiamato semplicemente Diyanet).
Nel 1928 l’alfabeto ottomano – un adattamento dell’alfabeto arabo-persiano usato per scrivere la lingua ottomana aulica – venne sostituito da una variante dell’alfabeto latino. Anche la lingua letteraria turca venne purificata dalle influenze lessicali persiane e arabe tipiche della letteratura ottomana, per avvicinarsi al dialetto parlato dalla popolazione. Questi cambiamenti erano per certi aspetti necessari, perché corrispondevano a reali esigenze pratiche. L’alfabeto arabo era poco adatto a scrivere il turco e l’ottomano classico era una lingua artificiale del tutto incomprensibile per la maggior parte dei turchi. Ma le scelte in ambito linguistico avevano anche un carattere ideologico, perché puntavano a emancipare la Turchia dalle influenze culturali dell’Oriente islamico e inserirla a pieno titolo nella tradizione della civiltà occidentale.
La novità più grande rappresentata dalla Turchia repubblicana era quella di essere – per la prima volta nella storia – uno stato nazionale turco. Non era più una dinastia, come quella ottomana, a determinare l’essenza dello stato, ma il suo carattere turco. La “turchità” (türklük), intesa in un senso sostanzialmente etnico e linguistico, da quel momento costituì l’aspetto centrale dello stato, e stabilì le forme di appartenenza nazionale. Per la Turchia significò forse il definitivo salto verso la modernità europea – solo in parte preannunciata dalle riforme dei sultani del XIX secolo – ma per le minoranze, in particolare quella curda, il fiero nazionalismo della neonata repubblica rappresentò un destino fatto di assimilazione forzata e costante conflittualità con lo stato.
Per i primi anni Kemal tentò di avvicinare il modello politico turco a quello di una democrazia rappresentativa, tentando alcuni esperimenti di sistema multipartitico, che però fallirono. Un lunghissimo discorso tenuto da Kemal tra il 15 e il 20 ottobre del 1927, passato alla storia come il Nutuk, sancì l’inizio del regime kemalista a partito unico. La completa riforma del codice civile e del diritto di famiglia, che affiancò quella del codice penale, comportò tra le altre cose l’adozione dell’onomastica in stile occidentale composta da nome e cognome. A Kemal venne dato l’altisonante cognome di Atatürk (Padre dei turchi), che doveva rimanere unico e che nessuno – nemmeno i suoi più stretti familiari – ebbero il diritto di portare.
Oggi non tutti i turchi concordano su certi punti specifici delle politiche intraprese da Atatürk. Alcuni possono anche dissentire del tutto sulle sue idee politiche, sul suo stile di vita e sulle sue convinzioni spirituali e religiose. Ma tutti i cittadini turchi (almeno fra quelli di etnia turca) sono concordi sul riconoscergli un grande merito: senza di lui la Turchia, cioè uno stato nazionale turco, non esisterebbe. Esiste una Turchia perché un uomo – o meglio un movimento comandato e rappresentato da quell’uomo – ha voluto che fosse così e ha combattuto affinché il suo sogno si realizzasse. In un certo senso, “padre dei turchi” Kemal Atatürk lo fu davvero.