All’inizio del XVIII secolo, sotto il regno di Ahmet III, l’impero ottomano visse un’epoca di pace e di moderata apertura al mondo occidentale. Anche la cultura e le arti ne giovarono e vissero un periodo di rinnovato vigore. Quest’epoca è nota come “età dei tulipani” – dalla mania che la classe dirigente sviluppò per la coltivazione di questi fiori – e si caratterizzò d’altra parte per la frivolezza della sua temperie culturale. Gli ottomani si limitarono a importare dall’Europa mode superficiali e mondane, senza che questo intaccasse in qualche modo il sistema politico e sociale dell’impero. La seconda metà del secolo vide gli ottomani in grave difficoltà soprattutto rispetto alla Russia.
La disastrosa guerra russo-ottomana del 1768-1774, che segnò il passaggio della Crimea alla Russia, rappresenta sicuramente uno spartiacque traumatico nella storia turca. La misera figura fatta in quelle circostanze dall’esercito ottomano, così come dal personale politico e diplomatico, mise a nudo davanti agli occhi del mondo tutti i limiti di un sistema sclerotizzato e incapace di adeguarsi alla realtà dell’Europa contemporanea.
Da questo momento una parte consistente della dirigenza ottomana ritenne che l’unico modo per salvare l’impero fosse quello di seguire l’esempio che la stessa Russia aveva dato nei decenni precedenti, riformando lo stato e il sistema socio-economico per avvicinarlo in qualche misura ai modelli dell’Europa occidentale. A questo settore progressista se ne oppose un altro altrettanto consistente, arroccato a difesa del sistema tradizionale, che sovente sostenne le proprie idee con motivazioni di carattere religioso. Questo movimento reazionario trovava consensi soprattutto nel clero e nel corpo dei giannizzeri, oltre che tra i notabili locali (ayan). Si trattava di categorie molto eterogenee, ma unite dal fatto che avevano tutto da perdere e nulla da guadagnare da qualsiasi cambiamento dello status quo.
I conservatori ottennero un iniziale successo nel 1808, quando riuscirono a deporre il sultano riformatore Selim III. Il suo successore Mahmut II dimostrò di avere imparato la lezione. Inizialmente Mahmut mantenne un profilo basso, pensando soprattutto a consolidare la propria posizione. Nel 1826, quando ritenne di essere sufficientemente forte, sferrò agli oppositori delle riforme un attacco decisivo, facendo sopprimere il corpo dei giannizzeri e massacrarne i membri. Dopo aver in questo modo privato i conservatori del loro braccio armato, avviò una politica centralizzatrice per riportare clero e notabili sotto il controllo del sovrano e dello stato, ponendo così le basi per un’efficace attività riformatrice.
Il progetto di Mahmut II fu portato a pieno compimento da Mustafa Reşit, forse il più importante statista ottomano del XIX secolo. Pochi mesi dopo la morte di Mahmut nel 1839, Reşit fece promulgare, a nome del nuovo sultano Abdülmecit, un decreto conosciuto come Gülhane Hatt-ı Şerif-î (Editto di Gülhane). Il testo preparato da Mustafa Reşit rappresentava una sorta di dichiarazione di intenti che preannunciava un’ambiziosa ristrutturazione di tutto il sistema ottomano, al fine di renderlo assimilabile ai modelli dell’Europa moderna: l’eguaglianza formale di tutti i cittadini, indipendentemente dalle appartenenze confessionali; l’istituzione di un sistema giuridico moderno che garantisse i principali diritti di tutti i sudditi del sultano, in virtù del quale i processi si sarebbero svolti pubblicamente; la creazione di un sistema fiscale efficiente in sostituzione dei tradizionali appalti; un nuovo esercito basato sulla coscrizione militare ed equipaggiato secondo gli standard europei dell’epoca.
La realizzazione di un progetto così grandioso si rivelò un’impresa titanica, che raggiunse risultati solamente parziali, come dimostrò la guerra di Crimea (1853). In quell’occasione gli ottomani, per non soccombere ancora una volta ai russi, dovettero umiliarsi invocando il soccorso degli alleati europei (Francia, Inghilterra e Piemonte). Il confronto diretto con i più avanzati paesi occidentali, i cui rappresentanti politici e militari si recarono nell’impero da alleati e amici, fu umiliante e rivelatore di tutte le contraddizioni e i limiti del processo di riforma.
Non di meno l’Editto di Gülhane segnò l’inizio di una nuova e più incisiva fase del processo di occidentalizzazione e di riforma dell’impero ottomano, ricordata dalla storiografia turca come Tanzimât Dönemi (Il periodo della riorganizzazione, o semplicemente “dei Tanzimât”). I cambiamenti avviati nell’età dei Tanzimât non furono infatti limitati alla risoluzione degli storici problemi legati alla debolezza militare ed economica dell’impero, ma abbracciarono quasi ogni aspetto della civiltà ottomana, dall’organizzazione amministrativa al sistema educativo e scolastico, dal campo giuridico alla cultura artistica e letteraria. Tutto questo sforzo riformatore avvenne nel segno di una marcata occidentalizzazione.
Alla morte di Mustafa Reşit e di Abdülmecit, il nuovo sultano Abdülaziz approfittò del vuoto di potere per riaffermare il ruolo del sovrano a scapito dei ministri riformatori, e per fare questo si affidò a figure politiche di limitate capacità e scarso rilievo intellettuale. Alla difficile situazione politica si aggiunse una grave crisi economica, effetto della Grande Depressione cominciata nel 1873. Era giunto il momento propizio per l’azione degli Yeni Osmanlılar (nuovi ottomani), un movimento riformista e costituzionalista ispirato ai valori del ’48 europeo, che il 30 maggio 1876 rovesciò Abdülaziz. Il 23 dicembre fu finalmente promulgata la prima costituzione ottomana, ispirata a quella belga del 1830, e nel mese successivo furono indette le prime elezioni per eleggere i 130 membri del parlamento che venne inaugurato il 19 marzo 1877.
Il 24 aprile dello stesso anno la Russia aggredì ancora una volta l’impero ottomano, usando come casus belli la violenta repressione da parte turca delle rivolte dei contadini slavi dei Balcani, esasperati dalla crisi economica e dal conseguente aumento del peso fiscale dello stato ottomano. Questa ennesima guerra russo-turca, conclusasi con il trattato di Santo Stefano del 3 marzo 1878, rappresentò un disastro ancora più grande di quella del 1774. Era abbastanza perché, preso atto del fallimento dei progressisti che ormai da più di un secolo tentavano vanamente di riformare l’impero, un repentino cambio di orientamento politico riportasse – almeno apparentemente – i conservatori al potere.
Al termine della guerra e ristabilito l’ordine, il sultano Abdülhamit II smise di convocare il parlamento e avviò una politica accentratrice, autoritaria, ideologicamente ostile al progressismo filo-occidentale e in gran parte basata sui valori religiosi dell’Islam. Nonostante il carattere autoritario, e talora estremamente violento e repressivo, del regime instaurato da Abdülhamit, gli anni che vanno dal 1876 al 1908 videro un indubbio proseguimento sui binari della modernizzazione dell’impero, e addirittura un’accelerazione sensibile per quanto riguarda alcuni aspetti. Tuttavia l’autoritarismo e la censura imposta dal sultano crearono un diffuso malcontento tra le classi più istruite ed europeizzate dell’impero, gettando le basi per una rottura rivoluzionaria.