Negli imperi turco-islamici sorti attorno all’anno mille, e in modo particolare tra i selgiuchidi, coesistevano due ambienti culturali radicalmente differenti. Uno di questi era rappresentato dalle élites urbane, generalmente legate alle diverse corti, o comunque inserite nei contesti della cultura, della religione e delle arti. Un discorso simile va fatto per gli artigiani e i mercanti, cioè quella che potremmo definire un po’ anacronisticamente come la “borghesia” dell’epoca. Questi erano totalmente inseriti nella civiltà iranica, utilizzavano il persiano come lingua di cultura e si erano uniformati allo stile di vita, all’ethos e ai gusti estetici persiani. La diffusione della lingua e della cultura persiana tra le classi abbienti e intellettuali turche non era di certo una novità, ma ne aveva accompagnato la storia almeno dall’epoca göktürk. Nel contesto islamico la simbiosi turco-iranica aveva però raggiunto un livello mai riscontrato in precedenza. “Quando il cane turco va in città, abbaia in persiano” dice un antico detto anatolico, fotografando perfettamente la realtà del Basso Medioevo in epoca selgiuchide.
Completamente diversa era la situazione delle campagne. Nella steppa anatolica, così come nel Caucaso meridionale e in Azerbaigian, le tribù avevano conservato un’identità marcatamente turca. Questi “turchi veraci”, che venivano chiamati turcomanni (türkmen), erano rimasti legati a una cultura semi-nomade e mantenevano inalterate le proprie tradizioni e il proprio modo di vivere. Tra loro la tradizione colta persiana non era riuscita a penetrare, e anche l’islamizzazione aveva seguito percorsi poco convenzionali. Spesso i turcomanni aderivano a forme di Islam eterodosse e sincretiste, favorite dal proselitismo dei mistici. Non di rado fu necessario trovare soluzioni di compromesso tra le pratiche islamiche, di difficile comprensione e attuazione, e le tradizionali concezioni sciamaniche. Nell’altopiano anatolico e tra le alture del Caucaso si sviluppò una ricchissima letteratura orale in lingua turca, in cui le leggende importate dall’Asia centrale trovavano una nuova dimensione, fondendosi con l’Islam e le tradizioni locali precedenti alle invasioni.
L’equilibrio tra la componente persianizzante e quella turcomanna si mantenne per tutta l’età selgiuchide, anche quando i Grandi Seligiuchidi d’Iran entrarono in crisi. Del resto gli scià della Corasmia, che ne presero per molti aspetti il posto, erano ancora più iranizzati di quanto lo fossero i selgiuchidi. Nel corso del XIII secolo una nuova grande ondata di invasioni nomadi sconvolse per l’ennesima volta tutto l’assetto politico e culturale del mondo orientale. Come è noto, questa volta l’iniziativa non era guidata dai turchi, ma dai mongoli. Gengis Khan fu probabilmente il più grande conquistatore di ogni tempo, ma le sue imprese portano eterna gloria al popolo mongolo, e qui ci stiamo occupando dei turchi. La sua biografia quindi non ci riguarda. Le sue azioni ebbero però un impatto fondamentale sullo sviluppo della storia turca.
La maggior parte dei turchi delle steppe furono integrati nelle sue orde, e in molti frangenti ne costituirono la maggioranza. Bisogna ricordare che, prescindendo dalla parziale islamizzazione di una parte del mondo turco, la differenza tra i turchi e i mongoli era all’epoca quasi esclusivamente linguistica. Per tutto il Medioevo turchi e mongoli non ebbero neppure la chiara consapevolezza di essere due popoli diversi. Mongoli e turchi condividevano infatti la stessa civiltà, le stesse concezioni del mondo e gli stessi valori, e soprattutto la stessa organizzazione politica su base tribale. Da sempre tribù mongole venivano integrate nelle grandi confederazioni tribali a guida turca e viceversa. L’impero di Gengis Khan non fece dunque eccezione. I mongoli avevano inoltre una cultura ancora molto arretrata se paragonata ad alcune realtà del mondo turco. Gli uiguri e i turchi islamizzati ottennero posti di assoluto rilievo nell’amministrazione e andarono a costituire la classe intellettuale dell’impero mongolo.
Alla morte di Gengis Khan il suo impero si divise in quattro khanati – uniti sotto la teorica autorità di un khaghan supremo – controllati dai suoi figli e dai suoi nipoti, che estesero ulteriormente i proprio territori con nuove spettacolari conquiste. Se escludiamo la parte dell’alta Asia ancora oggi abitata dai mongoli, il resto dei territori conquistati da Gengis Khan e dai suoi successori perse molto rapidamente il proprio carattere mongolo. La parte orientale dell’impero, che presto avrebbe inglobato l’intera Cina, seguì un percorso chiaramente diverso e sostanzialmente estraneo al mondo turco. Nelle altre tre porzioni l’elemento turco delle orde gengiskhanidi ebbe invece un peso superiore agli stessi mongoli.
In particolare nei territori nord-occidentali sorse un grande regno, conosciuto come Orda d’Oro (Altın Orda), che ebbe un’identità assolutamente turca. La popolazione e l’esercito erano costituiti in larghissima parte da genti di origine cumana – da qui il nome di “Khanato Kıpçak” con cui l’Orda era anche conosciuta – e con il tempo la stessa famiglia imperiale e la classe dirigente di origine mongola si turchizzarono e islamizzarono del tutto. A metà del XIV secolo l’Orda d’Oro, che controllava la gran parte della Russia e dell’Europa orientale, era uno stato turco e musulmano. L’Orda d’Oro rappresentò anche una splendida civiltà, con un’anima urbana (la capitale Saray era una delle metropoli più grandi del mondo medievale) e una nomade e pastorale. I musulmani turcofoni dell’Orda d’Oro furono conosciuti come tatari e svilupparono una cultura molto originale, che su un base kıpçak mescolò elementi dall’Asia Centrale e dall’Europa dell’Est. Influenzarono così in modo decisivo la storia della Russia e degli altri paesi che assoggettarono.
I mongoli distrussero la Corasmia, mentre il Sultanato di Rum sopravvisse accettando una forma umiliante di vassallaggio. Tra i risultati della distruzione mongola degli stati turco-islamici ci fu il riemergere della componente turcomanna, favorita dalla rovina delle classi dirigenti persianizzate. Agli inizi del XIV secolo i nomadi turchi e mongoli avevano raggiunto un’egemonia quasi assoluta dalle pianure dell’Ucraina alla Cina e dall’Iraq alla Manciuria. L’Europa li designò globalmente con il nome di “tartari” e imparò a temerli e in fondo anche ad ammirarli. Era cominciata la vera età dell’oro dei nomadi eurasiatici.