La nascita del primo grande impero turco-islamico, che avrebbe segnato per sempre la storia dei turchi e quella dell’Islam, fu favorita da una casuale concatenazione di eventi che ebbero origine tra gli oghuz nella regione del Mar Caspio. Una delle tribù della confederazione, quella dei Kinik, entrò in aperto conflitto con il potere centrale. Attorno al 950, guidati dal capoclan Selçuk, i Kinik abbandonarono la confederazione oghuz e migrarono verso est, stabilendosi nella parte meridionale della steppa kazaka. Nel nuovo ambiente, influenzati dalla vicinanza con i centri del potere samanide e della civiltà persiano-islamica, i Kinik si avvicinarono all’Islam. Selçuk si convertì nel 985, e questa è forse l’unica notizia certa sul suo conto. La dinastia di cui fu capostipite, i selgiuchidi, erano però destinati a raggiungere ben altra fama.
A quel tempo l’Iran e l’Asia centrale erano dilaniati dai conflitti tra le potenze locali. Dopo che i karakhanidi ebbero conquistato le terre dei samanidi, mettendo fine alla gloriosa dinastia persiana, si scontrarono inevitabilmente con i ghaznavidi. I figli di Selçuk mantennero un basso profilo, appoggiando a seconda dei contesti uno o l’altro dei contendenti. Nel frattempo consolidarono la propria posizione e favorirono la progressiva immigrazione di nomadi oghuz a nord dell’altopiano iranico. Quando i ghaznavidi – usciti vincitori dal conflitto con i karakhanidi per il controllo dell’Iran orientale – si accorsero del pericolo rappresentato dai selgiuchidi, era ormai troppo tardi.
Fu a questo punto che Tuğrul, uno dei nipoti di Selçuk, prese l’iniziativa. Nel 1039 calò in Iran alla testa delle orde oghuz, superando di gran lunga le imprese di ogni condottiero nomade dei secoli precedenti. La conquista della Persia proseguì per i successivi quindici anni. Le orde della steppa terrorizzavano il mondo “civilizzato” dal tempo degli unni, ma le invasioni nomadi non avevano mai raggiunto simili proporzioni.
Tuğrul fu il vero fondatore dell’impero selgiuchide e uno dei personaggi più importanti di tutta la storia turca. La durata e la violenza della sua aggressione alla Persia corrispondevano a un disegno politico preciso, e prima di allora nessun capo nomade ne aveva architettato uno così grandioso. I selgiuchidi non intendevano semplicemente razziare i territori iranici, ma insediarvisi in modo permamente e dare vita a un vero stato. Nel 1055 le sortì dell’Iran erano ormai segnate, e Tuğrul entrò trionfalmente a Isfahan facendone la capitale del suo impero. Eppure la conquista della Persia, cioè la più grande impresa in tutta la storia dei nomadi delle steppe fino a quel momento, non doveva essere il punto più alto dell’incredibile carriera di Tuğrul.
Il califfo abbaside di Baghdad, da alcuni decenni “ostaggio” degli sciiti iranici buwayhidi, chiamò Tuğrul in soccorso. Il condottiero selgiuchide colse l’occasione di diventare l’arbitro assoluto dei destini del mondo islamico. Nel 1058 occupò Baghdad, cacciando i buwayhidi, e si presentò come il difensore dell’ortodossia sunnita e del Califfato. Il califfo “restaurato” – ma in realtà ridotto a una marionetta nelle mani dei selgiuchidi – lo nominò sultano affidandogli un potere qualitativamente superiore a ogni altro sovrano del mondo islamico. Tuğrul, pur formalmente musulmano, portava un nome di origine sciamanica e in cuor suo rimase forse sempre un pagano. Privo di qualunque interesse spirituale, probabilmente non era neppure in grado di comprendere le complesse questioni religiose, giuridiche e dottrinali dell’Islam. La sua scelta di campo in favore del sunnismo fu dettata esclusivamente dall’opportunismo politico. Le conseguenze sarebbero però state importantissime per il destino dei turchi e dell’Islam. Nel 1063, alla morte di Tuğrul, l’intero Medio Oriente era in mano ai turchi selgiuchidi.
Alparslan, il nipote di Tuğrul che gli era succeduto al trono, si trovò nella necessità di dover disciplinare le orde oghuz. Bisognava distoglierle dalla tentazione di razziare i territori conquistati, poiché i selgiuchidi volevano legittimarsi come difensori dell’ordine e protettori dei popoli musulmani, e non potevano di certo permettere ai propri uomini di comportarsi come barbari nelle terre dell’Islam. Inoltre il clima e l’ambiente mediorientale mal si adattavano allo stile di vita e alle esigenze economiche dei turchi. Le tribù furono così invitate a sistemarsi nei verdi territori settentrionali dell’Azerbaigian, da dove cominciarono a premere sui confini dell’impero bizantino, razziando le terre degli armeni. Lo scontro fra i due imperi cominciò a presentarsi come una prospettiva inevitabile.
I destini del mondo greco-bizantino e di quello turco si decisero in una sola, epica, battaglia. Il 26 agosto del 1071 Alparslan condusse le sue truppe a Manzikert, nei pressi del lago di Van, dove si scontrò con l’esercito bizantino. A suo modo fu uno scontro di civiltà, ma non di religione. A Manzikert non furono tanto l’Islam e il Cristianesimo ad affrontarsi, quanto il mondo sedentario della civiltà bizantina e quello dei nomadi della steppa. Queste due realtà si affrontavano ormai da molti secoli, ed era giunto il momento decisivo. Non è un caso che i contingenti turchi dell’esercito bizantino (costituiti da peceneghi, oghuz e cumani) disertarono in massa per passare dalla parte dei loro “connazionali”. Alla fine i selgiuchidi ottennero una vittoria schiacciante: le armate bizantine furono annientate e l’intero altopiano anatolico cadde nelle mani dei turchi.
In Anatolia i selgiuchidi formarono un nuovo regno, il Sultanato di Rum (cioè “di Roma” intesa come terra bizantina). Si trattava di uno stato gestito da un ramo della famiglia selgiuchide, teoricamente subordinato all’impero dei Grandi Selgiuchidi di Iran ma nei fatti sostanzialmente autonomo. Esso ebbe per altro un rapporto travagliato con i principati creati dai più piccoli signori (bey) turchi che avevano colonizzato l’Anatolia. Quello selgiuchide venne così a configurarsi come un impero sui generis, costituito da alcune grandi monarchie (in Iran, Anatolia e Siria) gestite dai diversi rami della famiglia imperiale e da più piccole signorie fondate dai signori tribali che avevano costituito il nerbo delle orde conquistatrici. Tutto questo era unito sotto la teorica autorità suprema del Grande Selgiuchide di Isfahan, che nei fatti aveva un ruolo di primus inter pares. Gli scontri intestini furono la normalità nell’impero selgiuchide, ed erano generalmente tollerati finché non mettevano in discussione l’ordine generale e la stabilità dell’impero. Ci si trova chiaramente davanti una situazione di transizione tra i modelli delle confederazioni nomadi e la nuova realtà di una civiltà urbana e di una politica su base territoriale.
L’impero selgiuchide raggiunse la sua massima potenza durante il regno di Malik Şah (1072-1092). Dopo la sua morte cominciò per la dinastia dei Grandi Selgiuchidi d’Iran un periodo di lento declino. Mezzo secolo dopo, sotto la pressione dei mongoli khitai, l’impero dei Grandi Selgiuchidi si divise in regni più piccoli che furono facile preda dei vicini. L’ultimo Grande Selgiuchide, Ahmet Sencer, morì nel 1056. L’egemonia sulla Persia passò agli Scià della Corasmia, la cui dinastia era stata per altro fondata nel 1077 da uno schiavo turco dei selgiuchidi di nome Anuş Tekin. L’impero corasmio, la cui cultura era del resto quasi del tutto persiana, sarebbe durato fino alla conquista mongola della Persia nel 1221. Soltanto il regno selgiuchide di Rum sopravvisse fino agli albori del XIV secolo.
Nei decenni successivi alla battaglia di Manzikert una miriade di tribù turche – centinaia di migliaia di persone e milioni di capi di bestiame – si riversarono in Anatolia, trasformandola nella terra turca per eccellenza, quella che oggi porta il nome di Turchia. Questa grande espansione della civiltà turca, non solo in senso territoriale, è stata in fondo la più importante eredità dei selgiuchidi.