Nel momento in cui scriviamo, il ministero della Difesa russo rende noto che continuerà i raid aerei contro l’Isis e il Fronte al-Nusra. Sono passati pochi giorni da quando Putin ha annunciato la fine dell’intervento russo in Siria perché “gli obiettivi della missione sono stati ampiamente raggiunti”. Se si prende questa dichiarazione alla lettera, la contraddizione è lampante: la motivazione ufficiale dell’intervento russo era proprio la lotta al terrorismo. Eppure al-Nusra è ancora lì, anche se acciaccato, e l’Isis continua a controllare mezza Siria (e un bel pezzo di Iraq).
I numeri del disimpegno russo
Qualche dato. Non si tratta di un ritiro, piuttosto di un disimpegno. Le basi russe di Tartus e Jableh resteranno operative. E resteranno anche le due batterie di missili S-300 e S-400 (per intenderci, quelle che possono colpire gran parte della Turchia). Sarà invece rischierata in Russia una parte dei circa 70 velivoli oggi impegnati in Siria. Non tutti. Lo stesso discorso vale per il personale militare, oggi stimato in 5-6.000 uomini. Quanto sarà profondo il disimpegno, lo verificheremo nelle prossime settimane. In breve: la Russia non si ritira affatto. In poco tempo, se la situazione lo richiedesse, può tornare a pieno servizio. Come interpretare allora la mossa di Putin?
Un annuncio a effetto
Russia, esercito siriano e milizie alleate hanno quasi ripreso Aleppo, cuore economico del paese, e stanno per sferrare l’offensiva finale su Palmira, obiettivo tanto simbolico quanto strategico (nell’area ci sono diversi impianti di petrolio e gas). Rallentare proprio ora sarebbe folle, dal punto di vista militare. E infatti su questi fronti non sta cambiando e non cambierà nulla, avanti come prima.
Ma annunciare il “ritiro” ha i suoi effetti. Uno tra tutti, rende più semplici i negoziati di pace. Assad è con le spalle al muro: Putin lo ha salvato (e ha centrato il suo obiettivo minimo, evitare il collasso del regime), ma minacciando di andarsene lo tiene in pugno e lo costringe a confrontarsi con i gruppi ribelli. Comunque il regime siriano arriva ai negoziati da una posizione di forza, di gran lunga migliore di sei mesi fa. Tradotto: la Russia ha più voce in capitolo.
Le debolezze dell’intervento russo in Siria
Per Mosca, però, i motivi per festeggiare finiscono qua. Perché l’intervento russo in Siria è andato a rilento, forse più del previsto. Pochi giorni fa un caccia è stato abbattuto. Questa volta non dalla Turchia, ma dai ribelli e dagli armamenti che sono arrivati dai loro sponsor del Golfo. Un conto è perdere qualche soldato (in prima linea ci sono siriani, iraniani e Hezbollah libanesi), un altro è veder cadere i propri caccia. E impantanarsi nei dintorni di Damasco, a qualche migliaio di chilometri da casa, non era esattamente l’esito più popolare in Russia.
Infatti la guerra costa (da 1 a 2 miliardi, sostengono gli Usa, mentre il Cremlino dice 464 milioni) e la congiuntura economica è pessima. L’anno scorso il Pil è andato giù del 4% o quasi, il rublo vale la metà, i consumi restano al palo e, soprattutto, rimane basso il prezzo del petrolio. A proposito di petrolio: con l’acerrimo nemico saudita, la Russia non ha avuto alcun problema a coordinarsi per contenere la produzione. Vero segno che a Mosca interessano più i barili che i barili-bomba.
Quanto conta la Russia in Medio Oriente?
Poi c’è da mettere nel conto la partita con l’Iran. Con l’accordo sul nucleare in tasca e svanite le sanzioni, Teheran torna protagonista. Questo significa entrare in competizione con i vicini e anche, necessariamente, con la Russia e i suoi interessi nella regione. Se Mosca ha qualche strumento per frenarne la penetrazione nel Caucaso del sud, diverso è il rapporto di forza in Siria.
L’Iran è a Damasco per restare: è grande la sua influenza sulle Forze di Difesa Nazionali, oggi più potenti e strutturate dello sfilacciato esercito regolare di Assad. Qui il disimpegno della Russia si rivela un passo indietro, un lasciare il campo all’Iran. Sia che la Siria venga divisa in zone d’influenza, sia che resti uno stato unitario, è probabile che Damasco parlerà persiano. A conti fatti, da oggi la Russia conta molto meno in Medio Oriente.
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