La diversità e la ricchezza del tessuto linguistico-culturale del vecchio continente, parzialmente racchiuso tra i confini della fortezza UE, è stato riassunto nello slogan “unità nella diversità”. Come le esperienze degli stati nazionali hanno mostrato, il processo d’integrazione politica passa anche attraverso la lingua. Ma quale lingua, nel caso dell’UE? Può e deve l’inglese essere eletta lingua franca degli europei (se già non lo è) oppure va fronteggiato in nome del multilinguismo? E quale ruolo giocano le lingue di migranti e rifugiati?
Da anni se ne discute tra linguisti e altri addetti ai lavori. Di recente si sono confrontati sul tema Tullio De Mauro, Barbara Cassin e Jürgen Trabant nell’ambito della conferenza „Europa plurilingue: Mehrsprach Europa: L´Europe plurilingue:“ presso l’Institute of Cultural Inquiry (ICI) di Berlino. Tre approcci diversi ma punto di partenza comune: l’unicità di ogni sistema linguistico, non riassumibile in un mero mezzo di comunicazione, in quanto figlio di un determinato contesto culturale.
Il rispetto della diversità linguistica e delle culture altre, e il divieto della discriminazione sulla base della lingua rappresentano valori fondamentali dell’UE, come sancito nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE (art. 22) e nel successivo Trattato di Lisbona (art. 3, par. 3). Attualmente sono 24 le lingue ufficialmente riconosciute, oltre 60 quelle autoctone regionali e minoritarie, e diverse non locali parlate dalle comunità migranti. La politica linguistica europea intende creare un ambiente favorevole a tutti gli Stati membri promuovendo l’insegnamento e l’apprendimento delle lingue straniere, in un’ottica di coesione e integrazione sociale e come fattore di miglioramento delle opportunità a livello educativo-professionale. La formula vincente è stata identificata in M+2: lingua madre più altre due seconde lingue. I risultati dell’ultimo rapporto Eurobaromter “Gli europei e le loro lingue” hanno mostrato posizioni favorevoli a questo approccio da parte dei cittadini europei intervistati (72%). L’inglese è considerato dai 2/3 come la lingua più utile e il 69% riconosce l’importanza di avere una lingua comune.
“Forse al posto di avere una moneta comune si dovrebbe anche pensare ad una lingua che permetta la mutua comprensione” così commenta De Mauro, strenuo sostenitore dell’inglese come lingua di servizio di una federazione democratica delle popolazioni europee in grado di agire come comunità politica, ovvero discutendo e prendendo decisioni.
All’avanzata del Globalisch (l’inglese internazionale) si oppone il tedesco Jürgen Trabant. Nella sua visione, il multilinguismo esaltato a livello istituzionale è un’illusione, in quanto ogni singolo stato nazionale, e non come decisione comune, favorisce un processo di anglicizzazione a discapito della lingua ufficiale del Paese. Necessario è imparare la lingua del “vicino” o avere almeno un legame affettivo con la stessa.
Nel mezzo si colloca Barbara Cassin, la quale sulla scia di Eco, afferma che “la lingua d’Europa è la traduzione”. Apertura quindi al plurilinguismo e al riconoscimento del ruolo delle lingue altre anche all’interno degli stessi confini nazionali. Almeno un bilinguismo è essenziale, così come la conoscenza di un buon inglese, da non considerare però come lingua e cultura bastante a se stessa.
Il prefisso mono- è di per se qualcosa di costruito ed ideologizzato, e una lingua così come la sua cultura di riferimento non lo sono per propria natura intrinseca. Tuttavia è necessario trovare un terreno comune per comunicare e partecipare alla res publica europea e vedere nella diversità linguistica interna ai singoli stati non un ostacolo all’integrazione ma una ricchezza. Come disse Stefano I re d’Ungheria: “il regno che possiede una sola lingua e da per tutto i medesimi costumi è debole e caduco”. Il dibattito resta aperto.
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