East Journal nasce nella notte del 15 marzo 2010, in una gelida mansarda torinese dove il vino era cattivo e i soldi sempre pochi. Nasce per gioco, per fede, per anarchia, con qualche idea che prendeva coraggio: libertà d’informazione è poter dire tutto, senza autocensure né pregiudizi politici o ideologici. Pluralismo è contraddizione all’interno di un solo giornale, non tanti giornali monolitici e sordi l’un l’altro. Linea editoriale è curva e spirale, andare al centro delle cose, deviare dall’opinione comune, motivando e contestualizzando sempre. Onestà è ancoraggio ai fatti, esplicitazione delle fonti, rigore intellettuale. Sincerità è rapporto con il lettore, a cui nulla va nascosto, e chiara esibizione dell’opinione. Curiosità è ragione del mestiere. In questi sei anni abbiamo provato a mantenere fede a quegli ideali, se ci siamo riusciti sta ai lettori giudicarlo.
Oggi East Journal compie sei anni. Sei anni regalati per un progetto senza soldi, senza padrini o padroni, senza un futuro. Il futuro è una malattia da cui devi guarire a una certa età. E adesso siamo grandi abbastanza. E si va avanti a testa bassa, ancora per gioco, per fede, per anarchia ma senza troppe fantasie o sogni di gloria. Chi ci vuole leggere, sa dove siamo, e la fiducia che ci avete dato aiuta a respirare. Perché a volte si soffoca, sappiatelo, e ci va qualcosa che faccia sentire vivi, non dico utili, ma nemmeno buttati via.
Dire se saremo ancora qui tra un anno è difficile. Un progetto artigianale, fatto da volontari, vive alla giornata, vive di qualcosa di metafisico, di immateriale, qualcosa che attiene al campo dei sentimenti. E non c’è nulla di più volubile dei sentimenti. Ma nemmeno nulla di più potente.
Ed è così che siamo ancora qua, a litigare, a immaginare, a decidere come occuparci di una notizia, a imparare a lavorare meglio con immutata serietà. Perché East Journal è un gioco e quando si gioca non si scherza. E’ un gioco difficile a volte, quando l’insulto diventa l’unica moneta con cui ti ripagano. Ma l’insulto – diceva quel tale – è la ricompensa abituale per un lavoro ben fatto. E’ un gioco difficile quando le regole non le decidi tu ma un sistema – quello dell’informazione – giunto al collasso e incapace di rinnovarsi. E’ un gioco difficile quando alle spalle non hai i giusti padrini, la giusta rete di “contatti”, la necessaria capacità di comprometterti, la fondamentale adesione a qualche circolo, a qualche buona famiglia. E’ un gioco difficile quando le ore di lavoro speso non servono a mettere la cena nel piatto. Ma noi siamo quelli delle illusioni e delle grandi passioni.
E’ così sono sei anni oggi, spalle larghe e testa dura, di un gruppo unico e banale, radicato e disperso, solido e liquido, che almeno ha provato a fare qualcosa insieme, che ha creduto in se stesso, che ancora ci prova, che ancora si oppone, che ancora resiste. Male che va ci troveremo come le star a bere rakija in qualche bar balcanico. Quel giorno sarete tutti invitati. Ma quel giorno, a quanto pare, non è oggi. Grazie dunque a voi lettori e al vostro sostegno, morale e materiale. Senza di voi non saremmo qui.