di Fabio Barbero
La Radiotelevizija Bosne i Hercegovine (BHRT), l’ente radiotelevisivo di stato in Bosnia-Erzegovina, ha visto la morte in faccia. Ma, almeno per questa volta, è sopravvissuta al nuovo anno.
BHRT copre tutto il territorio nazionale con il canale BH1 e i canali radio BH Radio 1 e MP BHRT. A livello delle due entità, FTV copre la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, mentre RTRS va in onda nella Republika Srpska.
Non è un segreto che BHRT fosse in difficoltà finanziarie serie, ma a fine 2015 il timore che potesse chiudere i battenti era diventato reale: la stessa rappresentante OSCE per la libertà dei media Dunja Mijatović si era pronunciata sull’urgenza di evitare il fallimento e di trovare nuove modalità di finanziamento. L’accordo con i colossi telefonici BH Telecom, Telekom Srpske e HT Mostar, che prevedeva il pagamento del canone insieme alla bolletta della telefonia fissa, è terminato il 26 aprile 2015. E BHRT ha rischiato di trovarsi senza la sua fonte primaria di finanziamento.
Il parlamento non ha trovato un accordo sulle nuove modalità di riscossione. La vecchia modalità è impensabile se si vuole davvero tamponare l’emorragia di fondi (2 milioni di euro in meno ogni anno secondo Belmin Karamehmedovic, direttore di BHRT, intervistato da BIRN): il declino delle linee telefoniche tradizionali e la complicità della crisi economica erodono già da tempo le entrate. Per evitare il naufragio finanziario è stata introdotta una prima proroga sulle riscossioni del canone con scadenza a fine 2015 e poi una seconda, dando tempo alle reti pubbliche di respirare fino a giugno. Ma un accordo resta da trovare.
La politica a banchetto
L’impressione è che si stia rappezzando la vela di una nave che imbarca acqua. Il problema finanziario è il paravento dell’ipertrofismo e dell’immobilismo di una politica bosniaca che vede i media come un terreno appetitoso su cui distendere la propria longa manus, impedendo ogni nuovo accordo. L’insostenibilità finanziaria non è null’altro che la metafora dell‘insostenibilità dell’apparato politico-istituzionale bosniaco.
L’intromissione della politica nei media li trasforma in un ottimo strumento clientelare, con la duplice conseguenza di nuocere alle casse di questi enti (che pagano salato il conto di un surplus di forza lavoro), e di minare l’indipendenza dei mezzi di informazione.
L’etnopoli televisiva
Ad aiutare non è nemmeno la ripartizione delle competenze in ambito radiotelevisivo, legata a doppio filo con l’architettura costituzionale degli Accordi di Dayton: la gestione (soprattutto finanziaria) a livello di cantoni e municipalità di un consistente numero di emittenti (12 canali TV su 43 e 61 stazioni radio su 140) incrementa la frammentazione su base nazionale. In altre parole, perpetua la situazione di una stazione che è finanziata da una componente nazionale e si rivolge a quella stessa componente, vanificando i tentativi di integrazione e pluralismo.
Le pretese croate
Ad agitare le acque, le pretese croate di un’emittente pubblica che sia espressione della loro comunità, a fronte dell’esistenza della FTV nella Federazione e della RTRS nella Srpska. Pretese che sono diventate un leitmotiv per i croati di Bosnia e che sono puntualmente ostacolate dalle componenti serbe e bosgnacche, attente ad impedire ogni passo avanti verso un possibile riconoscimento di un’entità croata. Come risultato, sono stati segnalati più boicottaggi del pagamento del canone radiotelevisivo da parte della comunità croata, infiammata dalle retoriche nazionaliste.
Una strada in salita
Anche il fronte dell’Agenzia di Vigilanza sulle Comunicazioni (CRA) offre un quadro quantomeno fosco. Sebbene questa sia formalmente indipendente, alcuni emendamenti alla legge sulle comunicazioni hanno introdotto un sistema di nomina che rafforza l’iniziativa del Consiglio dei Ministri e del Parlamento. Come illustrato da Sanela Hodžić (Fondazione Mediacentar Sarajevo), le nomine al vertice restano altamente politicizzate e il percorso è ancora lungo in materia di trasparenza sui finanziamenti e di accessibilità dei report.
Il Parlamento avrà tempo fino a giugno per trovare una soluzione per le ambasce finanziarie delle proprie reti pubbliche. Ma il timore che la soluzione sia nient’altro che un rimedio fugace è reale. Perchè il problema resta in primis politico, e come tale va affrontato.