Malgrado la calma apparente delle ultime settimane, la crisi costituzionale in Polonia è tutt’altro che rientrata. Passata la bufera sul caso Wałesa, ritorna sotto i riflettori l’organo che negli ultimi mesi è stato al centro delle polemiche, la Corte Costituzionale. Risalgono alla scorsa settimana, infatti, le due autorevoli pronunce che dichiarano l’incostituzionalità delle riforme varate dal governo di Diritto e Giustizia (PiS) lo scorso dicembre: la prima a opera della stessa Corte Costituzionale, la seconda per mano della Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio d’Europa. In entrambe le dichiarazioni la sostanza non cambia: le riforme volute e approvate dalla maggioranza parlamentare imbrigliano la Corte impedendole di esercitare le sue funzioni in maniera efficace e puntuale. Un limite che – aggiunge la Commissione nel suo report finale – mina la democrazia, i diritti umani e lo stato di diritto.
C’era da aspettarselo. Gli allarmi lanciati dagli esperti di diritto all’inizio della vicenda e una prima bozza del verdetto, circolante tra la stampa da giorni, non lasciavano presagire un finale diverso. Nessuna sorpresa nemmeno per la reazione del governo che – come volevasi dimostrare – ad oggi non pare voler cedere su nessun punto. Mentre la Corte invoca la Costituzione, il premier Beata Szydło sostiene che siano state violate le norme vigenti dato che il regolamento approvato a dicembre stabilisce che i casi vengano esaminati in ordine cronologico da almeno 13 giudici su 15 (ad oggi 12 sono in carica). Il problema della composizione della Corte Costituzionale risale sempre alla fine dello scorso anno quando il governo di PiS ha disconosciuto 5 giudici eletti dai suoi predecessori e ne ha eletti altrettanti investiti dal presidente Duda ma rifiutati dal presidente della Corte Andrzej Rzepliński. O meglio, Rzepliński ha concesso solo a due di loro di prendere parte al consesso in quanto solo due nomine del precedente governo di Piattaforma Civica peccavano di incostituzionalità.
Risultato: la Szydło ha deciso che il verdetto della Corte non sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale per evitare che diventi legalmente vincolante, nonostante Venezia solleciti a farlo. Una scelta che testimonia il disprezzo che lei e il suo partito nutrono non solo per i principi della Costituzione polacca ma anche per la separazione dei poteri. A più riprese si ripete infatti che il governo deriva la sua legittimità dal volere delle nazione e che questo conta, non la legge, potendo il primo calpestare il secondo. Che PiS abbia ottenuto la maggioranza dei voti alle elezioni dell’ottobre del 2015 è fuori di dubbio, ma questo non gli concede la facoltà di instaurare una dittatura della maggioranza dove la critica non è concessa e chiunque sia contrario diventa automaticamente nemico della nazione. A dimostrazione che, oltre al nome, con il diritto e la giustizia il PiS non a nulla a che spartire. Se così non fosse, non si spiegherebbe la ragione per cui il governo ha deciso di non ascoltare il parere della Commissione di Venezia, interpellata – ironia e paradosso – dal ministro degli Affari Esteri, Witold Waszczykowski.
Una mossa poco lungimirante e rischiosa poiché la Commissione Europea, che ha avviato la “procedura pre-articolo 7”, ha affermato chiaramente che terrà in considerazione il report di Venezia quando dovrà esprimere il proprio giudizio sullo stato di salute della democrazia in Polonia, un po’ acciaccata anche per la legge sui media. Il paese rimane diviso e sulle piazze si riaccende la protesta. Ma non è più un problema interno come nei mesi scorsi: l’UE è scesa in campo da gennaio e Washington non nasconde la sua preoccupazione. Anzi, il portavoce del Dipartimento di Stato, John Kirby, lo ha fatto sapere proprio al quotidiano polacco Rzeczpospolita. Insomma, Beata, se il governo cade nella fossa che si sta scavando da solo, non dire che non ti avevamo avvertito.
Photo: Lukas Plewnia