È bastato un parziale cessate il fuoco perché i siriani tornassero a manifestare in piazza. Pacificamente: con striscioni, canti e cortei. Il fragile accordo raggiunto da Stati Uniti e Russia è entrato in vigore il 27 febbraio. Prevede, sulla carta, la cessazione delle ostilità tra il regime di Assad e i gruppi ribelli. Restano esclusi dall’accordo lo Stato Islamico e il Fronte al-Nusra. Non è stato rispettato ovunque, ma ha permesso alla popolazione, a quella rivoluzione siriana che sembrava sepolta sotto almeno 300mila morti e 5 anni di guerra, di tornare a farsi sentire mentre riparte un nuovo round di negoziati.
La rivoluzione siriana, 5 anni dopo
Per il secondo venerdì di seguito i siriani sono scesi in piazza. Le prime manifestazioni si sono tenute il 4 marzo. Gli slogan sugli striscioni e i canti sono gli stessi di 5 anni fa, identiche le parole d’ordine horriyeh e karama (libertà e dignità). È tornata la bandiera siriana a tre stelle rosse, che fu in vigore prima dell’avvento al potere del partito Baath e dell’era degli Assad. Dal 2011 è divenuta simbolo della rivoluzione, ma poi è stata rapidamente scalzata dai mille vessilli delle formazioni islamiste e jihadiste.
È proprio nelle zone controllate dalle formazioni ribelli che la gente è scesa in piazza. A Dara’a e dintorni, nel sud, nella periferia di Damasco e nella Ghouta, nella provincia di Homs a Talbise e al-Waer, fino a Idlib, Aleppo e alle città al confine con la Turchia. Per cosa manifestano? Il messaggio è chiaro: è tornato lo slogan “Il popolo unito vuole la caduta del regime”. A Kafranbel, dove in realtà per tutti questi anni ogni venerdì la gente ha continuato a manifestare, si legge su uno striscione “Il cessate il fuoco è il cessate il fuoco; la nostra rivoluzione pacifica è ancora in corso fino alla caduta di Assad e all’imposizione della giustizia su tutta la Siria”.
E gli islamisti?
Non è tutto come 5 anni fa, ovviamente. Allora in piazza sfilavano a decine di migliaia, oggi sono gruppi di qualche centinaio di persone. Ma le istanze che avanzano sono le stesse. E lo fanno dopo che la rivoluzione pacifica è stata sminuita, scalzata e poi annichilita dal radicamento delle formazioni ribelli islamiste, più o meno radicali. Bisognerà seguire da vicino il rapporto tra queste diverse componenti, perché dalla sua evoluzione dipende in larga parte l’effettiva pacificazione della Siria.
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Per il momento i segnali che si possono osservare sono discordanti. A Idlib e dintorni alcune manifestazioni sono state disperse dal Fronte al-Nusra (la filiale di al-Qaeda in Siria), che da un anno controlla la provincia. Ad Azaz, a nord di Aleppo, a guidare la protesta c’erano importanti esponenti di Ahrar al-Sham: un gruppo islamista che nel 2013 ha mediato in una disputa tra lo Stato Islamico e al-Nusra, che è ancora formalmente alleato di quest’ultima, ma che da mesi sta tentando di riciclarsi come forza stabilizzante, moderata, ed è riuscita a ottenere un posto per i suoi rappresentanti ai colloqui di pace.
I negoziati non decollano
Nel giro di una settimana dovrebbero riprendere anche i negoziati di pace sotto l’egida dell’inviato Onu Staffan De Mistura. Di fatto, il cessate il fuoco doveva essere la condizione propedeutica per riunire le parti attorno al tavolo. In realtà le posizioni sono ancora molto distanti. Il regime di Assad non riconosce alcuni interlocutori, che a loro volta premono perché si metta nero su bianco che Assad se ne deve andare. Ha dato forfait anche Haytham Manna, rappresentante del Syrian Democratic Council dove siedono le formazioni curde siriane e i loro alleati. I russi li vogliono nei negoziati, ma il blocco dei ribelli sponsorizzati da Arabia Saudita e Turchia li considera alleati di Assad. Con queste premesse, i canti della rivoluzione siriana purtroppo sono destinati a cadere nel vuoto ancora per un po’.
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