Fare un’analisi comparata tra l’Unione Europea e la Jugoslavia è stato spesso considerato come inappropriato o addirittura indecente. Spesso, come un paragone troppo azzardato. Eppure, le somiglianze restano e non possono essere trascurate.
Quando la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia cessò ufficialmente di esistere, nel 1992, da qualche mese era stato firmato il Trattato di Maastricht, una delle colonne portanti dell’Unione Europea. La differenza principale tra i due eventi è che mentre il primo rappresentò il picco della disintegrazione dei popoli jugoslavi, il secondo rappresenta tutt’oggi la base del processo d’integrazione dei popoli europei. Tuttavia, la federazione jugoslava, sin dalla sua nascita, richiama sotto molti aspetti quella che oggi è l’Unione Europea.
In generale, si tratta, in entrambi i casi, dell’unione di più popoli che smettono di farsi la guerra per perseguire interessi comuni, attraverso organismi di rappresentanza economica e politica, ma che comunque rimane rispettosa delle singole istanze nazionali. Nel particolare, sia nella federazione jugoslava che nell’Unione Europea si riscontrano i principi di uguaglianza tra i popoli, considerati come costituenti; di libertà di movimento, con l’eliminazione delle frontiere interne; e un certo grado di autonomia a livello economico, suggellata dall’unione monetaria.
Quel che invece contraddistingue questi due organismi è l’ideologia che ne sta alla base: socialista nel caso della Jugoslavia; liberale in quello dell’Unione Europea.
Tuttavia, qualunque analisi comparata tra queste due unioni non può che essere viziata dalla considerazione che la Jugoslavia si è disintegrata violentemente e che al momento l’Unione Europea sta affrontando la sua crisi peggiore. Quindi, sorge spontaneo chiedersi se, date le somiglianze strutturali, l’UE possa fare la stessa fine della Jugoslavia o se invece sarà in grado di far tesoro dell’esempio jugoslavo e risolvere i suoi attuali problemi.
La crisi jugoslava e la crisi dell’UE
L’escalation della crisi jugoslava durò ben dieci anni. Nel 1982, appena due anni dopo la morte del maresciallo Tito, le autorità governative federali dovettero riconoscere che il paese si trovava in forte recessione economica. Negli anni a seguire, i popoli jugoslavi ne cominciarono ad avvertire gli effetti: aumento della disoccupazione, crescita dell’inflazione e restrizioni di carattere commerciale ed energetico. L’epoca d’oro degli anni ’60 e ’70 rimarrà solo un ricordo, lasciando il posto alla speranza per un futuro migliore, che purtroppo non arriverà mai. La crisi, infatti, diventò sociale, oltre che economica, e per arginarne gli effetti le autorità furono obbligate ad imporre forti limitazioni per i consumi della popolazione.
La fine degli anni ’80, infine, vedrà il collasso politico della federazione jugoslava. I governi delle singole repubbliche, dotate di forte autonomia in virtù della costituzione del 1974, cominceranno a cavalcare l’onda dell’insoddisfazione sociale e a perseguire obiettivi politici ed economici a livello locale, piuttosto che federale. L’auspicio dell’ultima costituzione era infatti basato sull’idea che una maggiore autonomia repubblicana avrebbe incentivato un processo di collaborazione tra le singole repubbliche, ma questo paradossalmente si tradusse in una maggior chiusura politica e in un processo di protezionismo economico.
Quel che accadde in quegli anni in Jugoslavia è per certi versi molto simile a quel che sta accadendo oggi in Europa, dove i paesi membri si accusano l’un l’altro per la crisi economica. I paesi il cui debito pubblico ha raggiunto livelli esorbitanti vengono accusati di cattiva gestione delle risorse dai paesi più forti, in primis la Germania, che a sua volta viene accusata di imporre le misure di austerity che stanno portando al collasso del sistemo economico e sociale di paesi quali la Grecia.
A livello politico, inoltre, così come le repubbliche costituenti della Jugoslavia cominciarono a mettere in dubbio il dogma della “fratellanza ed unità”, paventando l’ipotesi di fuoriuscita dalla federazione, diversi paesi dell’eurozona hanno cominciato a criticare gli effetti della moneta unica europea, ipotizzando un ritorno alle monete nazionali. Come afferma l’economista sloveno Jože Mencinger, “l’Euro venne pensato come uno strumento irreversibile, dal momento in cui non esistono disposizioni legali che disciplinino un eventuale fuoriuscita dall’eurozona, il ché ricorda per molti versi il caso jugoslavo, dove non esistevano disposizioni che regolamentassero la secessione di una repubblica”.
E’ in atto, dunque, un ripensamento circa i vantaggi tra rimanere parte di un’ entità sovranazionale e l’opportunità offerta da un ritorno agli stati nazionali, almeno in quelle sfere della sovranità che sembrano esser state poco rispettate dalle istituzioni di Bruxelles. Nel caso jugoslavo, prevalse la seconda ipotesi: i governi repubblicani decisero di affrancarsi dalle autorità federali di Belgrado e questo processo si tradusse nella guerra degli anni ’90.
La crisi dei migranti in Europa
“Il summit tra Unione Europea e Turchia, previsto per il 7 marzo, per trovare una soluzione alla crisi dei migranti, è atteso come l’Ottava sessione della Lega dei Comunisti della Serbia del 1987” ha detto il premier serbo Aleksandar Vučić. Quella sessione segnò l’ascesa politica di Slobodan Milošević e la disfatta dei suoi oppositori all’interno del partito. In altre parole, fu l’inizio della fine politica della Jugoslavia. Il leader serbo seppe cavalcare l’ondata nazionalista scaturita dalla frustrazione dei serbi del Kosovo, così come ergersi a baluardo di difesa dell’integrità federale, senza tuttavia rispettarne i principi.
In Europa, invece, se già la crisi economico-finanziaria era stata in grado di produrre un ritorno dei partiti di estrema destra, della xenofobia contro gli immigrati, nonché della crescita dell’euroscetticismo, la crisi dei migranti dell’ultimo anno e mezzo ha messo in evidenzia le debolezze dell’UE come unione politica. Se alle divergenze economiche precedenti, particolarmente evidenti in merito alla crisi del debito greco, si aggiungono i disaccordi che stanno mettendo in pericolo il sistema Schengen, oltre che il principio di solidarietà su cui si basa l’intera organizzazione, ecco che sembra riproporsi lo scenario della disgregazione jugoslava. Così come la Slovenia, repubblica jugoslava più ricca, decise di uscire dalla federazione per uscire dalla crisi, allo stesso modo è comprensibile capire perché un paese come il Regno Unito discuta la possibilità di lasciare l’Unione Europea attraverso un referendum.
Inoltre, la creazione di muri e barriere di confine, a partire dall’Ungheria, e in generale la reintroduzione dei controlli di frontiera, ovvero la fine del sistema Schengen, che ad oggi poteva essere considerata come una delle migliori vittorie politiche tra gli stati membri, contrassegna il punto più basso dell’UE come unione politica, proprio perché rimette in discussione uno dei suoi principi di base – la libertà di movimento.
Verso la dissoluzione?
Il summit del 7 marzo difficilmente sarà in grado di rappresentare la fine dell’UE così come lo fu l’Ottava sessione per la Jugoslavia. Inoltre, né la crisi economica né quella dei migranti sembrano elementi sufficienti per portare i popoli d’Europa verso un nuovo inutile spargimento di sangue. Ciononostante, persisterà lo status quo di un gigante malato i cui paesi membri non condividono le stesse condizioni economiche – esattamente come la Jugoslavia era divisa tra un nord ricco e benestante e un sud povero e arretrato – e la cui unità politica, qualora sia mai esistita, sembra lontana dal poter risolvere gli attuali problemi.
Infine, anche se l’UE non dovesse mai disintegrarsi, l’evidente impossibilità dei suoi paesi membri di affrontare in modo comune la crisi ha minato, forse irreversibilmente, i valori su cui si fondava la stessa Unione.