A man wearing a helmet stands at a barricade at Independence Square in Kiev, Ukraine, Monday, Feb. 24, 2014. Ukraine's acting government issued a warrant Monday for the arrest of President Viktor Yanukovych, last reportedly seen in the pro-Russian Black Sea peninsula of Crimea, accusing him of mass crimes against protesters who stood up for months against his rule. (AP Photo/Marko Drobnjakovic)

UCRAINA: Quando gli USA dissero a Kiev: “Mollate la Crimea ai russi”

Era una cosa che si vociferava da tempo, ma un documento pubblicato lo scorso 23 febbraio dal Parlamento ucraino lo conferma: all’indomani dell’invasione russa della Crimea, la penisola è stata abbandonata a se stessa perché così hanno voluto gli Stati Uniti e perché i soldati ucraini presenti nella penisola erano pronti a disertare e passare al nemico.

Il documento, pubblicato da una commissione del parlamento ucraino, ci porta dentro le drammatiche ore che seguirono l’invasione delle truppe di Mosca, il 28 febbraio 2014, durante una riunione d’emergenza tra i vertici del nuovo regime, quali Oleg Turcinov, presidente ad interim, Ihor Tenyukh, ministro della Difesa, Arseniy Yatseniuk, primo ministro, Valentyn Nalyvaichenko, capo dei servizi di sicurezza, e Julia Timoshenko la quale, tuttavia, non ricopriva incarichi di governo.

In quelle ore convulse emerge la figura del presidente Turcinov, pronto a dichiarare lo stato di guerra e combattere contro gli invasori. Una posizione che suscitò subito le preoccupazioni dei ministri consapevoli che, da sola, l’Ucraina non avrebbe potuto reggere lo scontro con i russi. “Non siamo pronti per una guerra su larga scala – replicò il ministro della Difesa, Tenyukh – Abbiamo bisogno di tempo. Abbiamo bisogno di aiuto. Abbiamo bisogno che il mondo reagisca contro questo sopruso. Lo dico francamente: al momento non disponiamo di un esercito. Possiamo mobilitare appena 5000 uomini mentre la Russia sta portando 38mila soldati al confine orientale, con tanto di supporto aereo e navale. E non si tratta di una dimostrazione di forza, la Russia si sta preparando all’invasione”.

Il rischio evidente era quello di trascinare il paese in una guerra dalla quale sarebbe uscito distrutto, una guerra che non avrebbe potuto vincere senza il supporto occidentale. Non solo, poiché la rivoluzione poggiava su basi fragilissime e la guerra avrebbe portato alla caduta del nuovo regime e alla restaurazione di un potere filorusso che, alla luce dei fatti di Maidan, sarebbe stato ancora più duro del precedente. Morire per la Crimea, dunque?

No, non ne valeva la pena. Tanto più che “la Crimea è da sempre filorussa“, hanno sottolineato i ministri. “Gli abitanti della Crimea sono bombardati dalla propaganda russa che da anni li prepara all’evento. Credono che noi vogliamo massacrare i parlanti russi, che questo sia un governo fascista”. Il governo russo effettivamente preparava da tempo il terreno, sia attraverso l’attività di propaganda, sia con manovre politiche destabilizzatrici, come la consegna di passaporti russi ai russofoni della penisola.

Inoltre per fare una guerra ci vanno dei soldi, “e le casse dello stato sono vuote”, dichiarò il primo ministro Yatseniuk che, durante quella riunione, ricordò ai presenti come “le navi da guerra americane presenti nel Mar Nero” fossero state “ritirate dalla zone operativa, quale chiaro segno della posizione degli Stati Uniti in merito alla vicenda”. Un “peccato”, aggiunse Yatseniuk, ma quella era la realtà dei fatti. “Quindi la Nato ha paura di aiutarci?” sbottò il presidente. “Per come stanno le cose, sì” rispose il primo ministro, che aggiunse: “credo che nessun paese occidentale ci aiuterà”. Dichiarare lo stato di guerra sarebbe quindi stato rischioso poiché i russi l’avrebbero interpretata come una dichiarazione di guerra nei loro confronti.

E i precedenti cui appellarsi non mancavano. Yulia Timoshenko ricordò quel che avvenne in Georgia nel 2008, quando l’allora presidente Saakashvili – convinto di avere il supporto occidentale – attaccò l’Ossezia del Sud, occupata e protetta dai russi. “Putin aspetta solo un’occasione per attaccare, una scusa qualsiasi, e cerca di provocare una nostra reazione”.

Il messaggio degli Stati Uniti era chiaro: mollare la Crimea ai russi, in caso contrario Kiev se la vedrà da sola contro Mosca. Nessun paese europeo, né l’Unione Europea, tesero la mano verso il nuovo governo ucraino. Morire per la Crimea? No, non aveva senso per nessuno. Nemmeno per gli ucraini, a ben vedere. Il capo della sicurezza, Nalyvaichenko, lo disse con chiarezza: “americani e tedeschi parlano a una voce sola, entrambi ci stanno chiedendo .- attraverso i loro servizi segreti – di non reagire all’invasione onde evitare una guerra su larga scala”. ” E poi – concluse amaramente Nalyvaichenko – i nostri soldati in Crimea sono pronti a disertare“.

Pochi mesi dopo il conflitto esplose comunque, nel Donbass, ma al posto di un attacco diretto su larga scala si ebbe una proxy war, con truppe paramilitari russe e ucraine a scatenare un conflitto a bassa intensità. In attesa di qualcosa di peggio.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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