Tra i molti film della Berlinale 2016 alcuni erano di produzione turca e altri hanno invece lambito il paese governato da Erdogan. Due sono i film realizzati da registi turchi: Toz bezi – Dust Cloth di Ahu Öztürk, presentato in Forum, e Young wrestlers nella sezione Generation.
Il lungometraggio di Ahu Öztürk racconta di due donne delle pulizie di Istanbul di origine curda: Nesrin ha cacciato di casa il marito e ha una figlia piccola, per godere di benefici sociali ha bisogno di trovare un lavoro vero e gira per la città per ricercarlo. Hatun invece sogna il mondo dei quartieri alla moda dove pulisce gli appartamenti della classe media, il suo desiderio è così forte che nonostante sia musulmana prega in una chiesa cristiana affinché i suoi sogni si avverino. Questa scena è molto forte e anche il conflitto che si sviluppa tra le due donne è interessante, il film però risulta alla fine molto piatto e non va oltre a un ritratto di questa amicizia. Risulta quasi più interessante come manuale di sociologia sulle differenze in una società come quella turca, piena di contraddizioni, che come film.
Young Wrestlers del regista turco-tedesco Mete Gümürhan è invece è un buon documentario, premiato dalla giuria della sezione “Generation Kplus” con una menzione speciale. Nella provincia di Amasya, a est di Ankara quasi sul mar Nero, 26 ragazzi tra i 10 e i 18 anni vivono presso l’accademia sportiva e cercano di realizzare il loro sogno di diventare lottatori. La lotta in Turchia è sport nazionale, forse secondo solo al calcio, e i vari compagni di classe lottano con il desiderio di riconoscimento, con la nostalgia di casa e controllando il peso del loro corpo per rientrare nei parametri. È un bel film sull’apprendimento, la sofferenza per la loro passione: i lottatori giovani si trovano ad affrontare i classici problemi dell’adolescenza in un ambiente dominato dagli uomini e dalle incoerenze della Turchia contemporanea. È puro cinema di osservazione, Gümürhan rimane discreto nel seguire la vita quotidiana, le amicizie, la determinazione dei ragazzi, molti dei quali provengono da famiglie povere che vedono nella lotta lo strumento per ottenere una vita migliore. Ne esce un bel ritratto di giovani in un paese così complesso come è la Turchia contemporanea, densa di grandi cambiamenti.
Altri due film hanno parlato di Turchia indirettamente: A road to Istanbul di Rachid Buchareb, visto nella sezione Panorama, e Houses without Doors di Avo Kaprelian, presentato invece in Forum.
Il film del franco-algerino Rachid Buchareb (il regista del bel London River) è per metà ambientato in Turchia e racconta una storia uscita dall’attualità recente: campagna del Belgio, Elisabeth vive con la figlia Elodie in una casa idilliaca, non è per nulla preoccupata quando la figlia non torna a casa una sera. Presto scoprirà che Elodie ha lasciato il paese per entrare nelle fila dello Stato Islamico in Siria. Elisabeth è sbalordita, incredula e comincia a indagare, decide quasi subito di partire per la Turchia e da lì andare a cercare la figlia in Siria per riportarla a casa. Il film nella seconda parte si svolge tutto sul confine turco-siriano, Buchareb racconta bene il percorso umano di Elisabeth e la sua disperazione interiore che emerge chiaramente. Anche la messa in scena controllata e la fotografia ricercata paiono non pienamente efficaci per raccontare questa sofferenza. Ma quel che proprio non funziona è il contesto assolutamente irrealistico, una visione buonista della Turchia, rappresentata dal poliziotto buono che aiuta la donna nella ricerca della figlia. Il regista realizza perciò un film fuori dalla realtà, con situazioni lungo il confine al limite dell’assurdo e un finale utile per poter mostrare qualche bella inquadratura di Istanbul.
Il documentario Houses without Doors di Avo Kaprelian è anch’esso di ambientazione non turca: racconta di Midan, quartiere armeno di Aleppo, nel quale vivono i discendenti dei sopravvissuti al genocidio armeno, fuggiti dalle proprie case nel giorno in cui i turchi presero le loro terre e li costrinsero ad andare in Siria. Kaprelian realizza un film molto interessante, girato quasi interamente dal balcone di casa sua: racconta così la vita quotidiana nelle strade e cattura il senso di paura e di incertezza dentro al conflitto siriano. Si concede tutto con i dialoghi di osservazione, le interviste, la famiglia dentro il film, il materiale di repertorio, i riferimenti cinefili. Non ha nessuna paura della brutta inquadratura, anzi sporca continuamente l’immagine con fuori fuoco, camera storta, l’importante è quel che riprende e quel che vuole trasmetterci. In questo modo ci fa capire come per gli armeno-siriani, la cui memoria è forgiata sull’esilio forzato, la prospettiva di lasciare le loro case risuona come un trauma che non può essere vissuto ancora.