Stati Uniti e Russia hanno raggiunto un accordo sulla guerra in Siria. I termini prevedono la “cessazione delle ostilità” a partire dalle prossime settimane e l’apertura di corridoi umanitari in particolare per le città assediate. Le virgolette sono d’obbligo perché non si tratta di un cessate il fuoco formale. I motivi sono diversi. Primo, l’accordo non è stato sottoscritto dai gruppi ribelli (moderati, islamisti, jihadisti) dell’opposizione né dal governo siriano. Secondo, l’accordo non riguarda i bombardamenti della Russia: continueranno perché – ufficialmente – diretti solo contro il Fronte al-Nusra (filiale di al-Qaeda in Siria) e l’Isis, che Washington al pari di Mosca considera terroristi.
Una exit strategy per la Russia?
Nonostante le apparenze è un passo importante. Non solo sul piano umanitario. La conferenza di pace era naufragata poche settimane fa anche su questo punto: tutte le parti pretendevano che gli avversari deponessero le armi per primi. Adesso la galassia delle opposizioni è con le spalle al muro. La Russia può continuare le sue operazioni, loro devono fermarsi. In pratica significa che bisogna tornare al tavolo negoziale e anche in fretta.
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Al di là delle dichiarazioni di facciata, comunque, il punto è un altro. Grazie al decisivo supporto aereo della Russia gli alleati del regime di Assad (Iran, Hezbollah) sono da poco riusciti a stringere la morsa su Aleppo e a tagliare l’unica via di rifornimento dei ribelli. Le operazioni sono ancora in corso e una settimana di bombardamenti in più può fare la differenza e consegnare definitivamente la seconda città della Siria al regime di Assad. Se ciò avvenisse, la Russia eviterebbe di impantanarsi in Siria. Potrebbe tornare a negoziare da una posizione di forza e intanto diminuire il dispendioso impegno militare.
Le contromosse del Golfo
Quegli stati che da 5 anni appoggiano le fazioni ribelli sono più che mai in fermento. La prospettiva di perdere i propri referenti sul campo impone di ripensare da capo la loro strategia, o almeno di prepararsi per il peggior scenario possibile. Fra tutti sono in particolare Arabia Saudita e Turchia a scalpitare. Il regno saudita è da anni uno dei maggiori sponsor del fronte anti-Assad e il suo interesse principale è contrastare l’influenza dell’Iran nella regione, soprattutto dopo l’accordo sul nucleare e la revoca delle sanzioni internazionali. Teheran, dal canto suo, ha ormai una tale influenza sulle istituzioni siriane, a partire dall’esercito, che solo una disfatta totale del regime potrebbe cancellare. Così negli ultimi giorni l’Arabia Saudita ha ribadito il suo impegno a mandare truppe di terra in Siria, sotto l’ombrello della coalizione internazionale che combatte l’Isis. Dell’Isis non gliene importa poi molto, ma mantenere un piede in Siria è vitale e al momento per Riyadh non sembrano esserci altre vie praticabili.
La Turchia e l’incubo del Kurdistan
Anche la Turchia deve risolvere i suoi problemi. Il principale si chiama Kurdistan. Le milizie curde in Siria sono legate a doppio filo al Pkk: più avanzano e guadagnano consenso internazionale, meno spazio di manovra resta ad Ankara sia all’estero che in casa propria. La Turchia farà di tutto per impedire la formazione di una zona curda autonoma in Siria lungo il proprio confine sud. Da sabato 13 febbraio l’esercito di Ankara colpisce le postazioni curde dell’YPG a Tal Rifaat (nord di Aleppo), a poca distanza dal confine, con fuoco d’artiglieria. Ma i curdi continuano ad avanzare e dimostrano di saper gestire benissimo le proprie alleanze. Da pochi giorni hanno strappato l’importante base aerea di Managh ai ribelli (grazie alle bombe russe), nel frattempo hanno aperto un ufficio di rappresentanza a Mosca con tanto di ritratto di Ocalan e hanno incassato una vittoria diplomatica con la visita di un rappresentante statunitense a Kobane. Uno dei futuri possibili per la Siria è la frantumazione in più stati: una qualche versione di Kurdistan siriano potrebbe essere il primo.
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