Settimana scorsa il Parlamento europeo ha discusso della situazione in Polonia dopo che il partito di destra Diritto e Giustizia (PiS) nelle prime settimane di governo ha riformato la Corte Costituzionale e messo sotto controllo la televisione pubblica. La premier polacca Beata Szydło si è premurata di tranquillizzare i parlamentari europei: “non è successo niente di male”, “non c’è stata alcuna violazione della Costituzione” e “non vedo ragione per cui perdere così tanto tempo sulle questioni [interne] polacche”, ha dichiarato. Ma le rassicurazioni non sono bastate agli eurodeputati né al vicepresidente della Commissione europea, il socialista olandese Frans Timmermans, secondo il quale “rischiamo di vedere l’emergere di una minaccia sistemica allo stato di diritto in Polonia”. Sempre settimana scorsa, la Commissione europea ha avviato un meccanismo di dialogo con il governo polacco per verificare se il governo di Varsavia non abbia infranto le leggi del proprio stesso paese. Una prima volta per un meccanismo adottato nel 2014 come passo intermedio prima di aprire una procedura in base all’articolo 7 del Trattato UE – quello in base al quale uno stato membro può arrivare a perdere i propri diritti di voto laddove sia verificata una “grave violazione” dei valori europei.
La situazione della Polonia è ancora fluida, ma i rischi di un de-consolidamento democratico non vanno sottovalutati. E’ infatti chiaro oggi che l’adesione all’UE non è in sé un antidoto sufficientemente forte a tali rischi. Nello scorso decennio, l’Unione europea ha permesso che nell’Ungheria di Viktor Orban la democrazia venisse svuotata dall’interno da parte di un partito egemone in grado di controllare tutte le leve del potere, limitare il ruolo delle istituzioni indipendenti e dei media, e riscrivere da solo la Costituzione del paese a propria immagine e somiglianza – fino ad arrivare, l’estate scorsa, ad erigere per primo un nuovo muro nel cuore dell’Europa, per sbarrare la strada ai profughi dalla Siria. Orban tuttavia è stato protetto negli anni dalla sua partecipazione al Partito Popolare Europeo, che si è sempre messo di mezzo ad ogni tentativo di rafforzare la supervisione europea su ciò che accadeva nel paese magiaro.
Non è così per la Polonia, il cui partito di governo non ha alleati a Bruxelles se non i Conservatori di David Cameron, su ben altri dossier indaffarati. E tanto le istituzioni europee quanto gli stati membri sono consapevoli che, se un “caso Ungheria” era ancora tollerabile, un contagio illiberale in Europa centrale rischierebbe di far saltare ogni possibilità di compromesso a livello europeo sui dossier più scottanti del momento – dalla risoluzione della crisi dell’eurozona alla revisione della politica europea d’asilo e immigrazione.
Orban e i suoi discepoli inoltre potrebbero dare il via ad un precedente molto pericolo per gli attuali paesi candidati all’ingresso nell’UE nel giro del prossimo decennio. E’ evidente ormai, infatti, come lo stretto monitoraggio che la Commissione effettua sui paesi candidati venga completamente a sparire nel momento in cui questi passano ad essere stati membri. Quale metodo migliore allora, per governi quali quelli di Serbia, Macedonia e Montenegro, che non quello di mostrarsi come pragmatici e riformatori europeisti fino al momento dell’adesione, per poi dare fondo alle proprie mal celate tentazioni autoritarie una volta accettati come paesi membri a pieno titolo. Questi tre paesi dei Balcani occidentali affronteranno elezioni politiche nel corso del 2016, e sarà importante che l’Unione europea vigili attentamente sul rispetto delle condizioni affinché esse siano davvero libere e democratiche, evitando di prediligere la stabilità all’interno dei paesi candidati alle spese della democrazia dell’alternanza.
Nel medio periodo, sarà necessario che l’Unione venga rafforzata affinché possa avviarsi verso un compiuto stato di diritto essa stessa, in cui il rispetto dello stato di diritto all’interno dei paesi membri sia sottoposto allo scrutinio delle istituzioni comuni. Molteplici progetti in questo senso erano stati avanzati negli anni scorsi – ad esempio il “Rule of Law Justice Scoreboard” proposto dalla Commissaria Viviane Reding – ma subito riposti nel cassetto alla prima obiezione. Se davvero il 2017 sarà l’occasione di riaprire i trattati, questo tema dovrà trovare posto all’ordine del giorno.
Foto: European Parliament / Pietro Naj-Oleari