Nel 1988 si costituì in Lituania, allora parte dell’Unione Sovietica, il movimento democratico Sajudis, che nel giro di poco tempo assunse una dimensione imponente. La mobilitazione popolare portò alla spaccatura del Partito comunista due tronconi: una minoranza di obbedienza moscovita e la maggioranza che scelse la via autonomista e nazionale. Le pressioni di Mosca non valsero a nulla e l’11 marzo del 1990 il Parlamento di Vilnius proclamò il ristabilimento dell’indipendenza (la Lituania era stata dapprima oggetto di spartizione tra comunisti e nazisti con il Patto Molotov-Ribbentrop e successivamente era stata nuovamente occupata dalle truppe sovietiche e annessa all’URSS).
Il segretario del PCUS, Mikhail Gorbachev, reagì imponendo alla Lituania un blocco economico. Contemporaneamente gli apparati sovietici tentavano di organizzare movimenti filo-moscoviti e suscitare sentimenti sciovinisti nella minoranza della popolazione slava. Ma i russi in Lituania erano pochi e così il Cremlino tentò di dare vita a un movimento separatista polacco. Operazione, anche questa, destinata all’insuccesso: la Polonia democratica del dopo ’89 parteggiava per la Lituania.
Il 10 gennaio 1991 arrivò l’ultimatum di Gorbachev a riconoscere il dominio sovietico nel paese, subito respinto dal Parlamento.
Nel corso della telefonata con il presidente lituano Vytautas Landsbergis, Gorbachev aveva minacciato anche l’intervento militare. Il giorno successivo unità speciali sovietiche e paracadutisti occuparono il Palazzo della stampa, dove si trovavano le tipografie e le redazioni della maggior parte dei giornali lituani.
La popolazione iniziò a raccogliersi attorno al Parlamento e alla Torre della televisione, per proteggerle dall’occupazione.
Nelle prime ore del 13 gennaio, uomini dell’Unità speciale Al’fa, coperti da truppe antisommossa, paracadutisti, blindati e carri armati scattarono all’assalto. Un migliaio di civili vennero violentemente dispersi, 140 furono feriti e 13 vennero uccisi. Da “fuoco amico” rimase ucciso anche il tenente Viktor Shatskikh, dell’Unità speciale Al’fa del KGB. Post mortem, a Mosca sarà insignito dell’Ordine della Bandiera Rossa, una prestigiosa onorificenza conferitagli per l’operazione contro i civili lituani.
Immediatamente il movimento democratico russo si mobilitò a favore dei baltici (una operazione simile era scattata in Lettonia) e il presidente del Soviet supremo russo, Boris El’tsin, si precipitò a Tallin, per fermare una dichiarazione congiunta con Estonia, Lettonia e Lituania.
Le pressioni internazionali poi misero Gorbachev nell’angolo, impedendo che l’intervento militare proseguisse. Washington minacciò di annullare l’imminente vertice e riconsiderare gli aiuti che stavano per essere stanziati. La Comunità Europea congelò i fondi di assistenza tecnica. La NATO e i gli stati europei fecero capire chiaramente che l’utilizzo della forza avrebbe avuto gravi ripercussioni negative.
Gorbachev non poteva rivolgersi agli occidentali proclamando il “nuovo pensiero” e ideali umanitari e contemporaneamente avviare la repressione militare. Soprattutto non avrebbe potuto ottenere i crediti di cui disperatamente necessitava viste le disatrose condizioni economiche in cui versava l’URSS.
Si era peraltro in un momento in cui l’URSS era sotto particolare osservazione, poche settimane dopo le clamorose dimissioni del ministro degli esteri Eduard Shevardnadze, che in dicembre aveva rimesso il suo incarico sostenendo che sul paese incombeva un colpo di stato.
Georgi Shaknazarov, uno dei collaboratori personali di Gorbachev ha sostenuto che in Gorbachev coabitavano due persone: un riformatore radicale e un funzionario di partito. In quel gennaio 1991 indubbiamente prevalse la conservazione dell’impero sovietico. Le conseguenze pratiche furono disastrose. Pubblicamente Gorbachev cercò di nascondere la verità dietro una serie di menzogne: il 14 gennaio difese l’intervento militare, aggiungendo che ne era venuto a conoscenza dopo che era avvenuto. Ma due giorni prima il generale Vladimir Uskhopchik, comandante della guarnigione militare di Vilnius, aveva dichiarato che i militari stavano operando secondo le direttive di Gorbachev.
Una tragedia che ha lasciato ferite aperte ancora oggi. E anche sul piano giudiziario, perché chi si è macchiato di reati è riuscito a sottrarsi alla giustizia. Non stupisce che Russia e Bielorussia non abbiano collaborato. Ma non hanno collaborato con le autorità lituane anche stati occidentali quali l’Austria. Nel luglio 2011 l’ex generale del KGB Mikhail Golovatov, su cui pendeva un mandato di cattura internazionale, venne fermato all’aeroporto di Vienna, per essere rilasciato meno di 24 ore dopo. Vilnius ritirò il suo ambasciatore dall’Austria, mentre la presidente Dalia Grybauskaite dichiarava che quanto era accaduto costituiva “una azione politicamente non giustificabile che discredita la operazione europea in materia giudiziaria”. All’epoca circolò la voce che un terzo paese aveva esercitato forti pressioni su Vienna.
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