Dopo 15 mesi di negoziati c’è un accordo di pace. Sulla carta, almeno. Giovedì 17 dicembre i delegati dei parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk hanno siglato l’intesa nella città marocchina di Skhirat, alla presenza del nuovo inviato dell’Onu Martin Kobler. Un passo in avanti, certo, ma la fase più delicata inizia adesso: l’accordo va tradotto in pratica.
Le nuove istituzioni
Il premier incaricato Fayez Serraj presiederà un Consiglio di Presidenza, mentre i due parlamenti dovrebbero confluire in una Camera dei Rappresentanti e un Consiglio di Stato. Intanto al Palazzo di Vetro si lavora per una risoluzione che dia riconoscimento internazionale alle sole istituzioni unificate. La situazione si è sbloccata quando il vecchio inviato Onu, Bernardino Leon, ha lasciato l’incarico travolto da un grave scandalo rivelato dal quotidiano inglese The Guardian.
Chi si oppone all’accordo
L’arrivo di Kobler però non fa piazza pulita di tutti i problemi. Basta ricordare che il piano di pace è stato firmato soltanto da una frazione dei deputati di entrambi i parlamenti. All’inizio di dicembre i più recalcitranti si sono incontrati a Tunisi per avviare un processo di pace tutto libico, formalmente senza interferenze esterne ma soprattutto senza il cappello dell’Onu. E solo martedì scorso il concetto l’hanno ribadito i due presidenti delle assemblee rivali. Da Malta hanno chiesto di rinviare la firma: un messaggio da non sottovalutare, visto che con le loro milizie possono far pressione sui deputati. Facile immaginare che le ali più oltranziste possano venir manovrate dai loro sponsor esteri per ottenere più voce in capitolo (Qatar e Turchia per Tripoli, Egitto e Emirati per Tobruk).
Un paese ancora più diviso di prima?
C’è quindi il rischio concreto che la situazione diventi ancora più caotica di prima, come spiegano Claudia Gazzini e Issandr el-Amrani dell’International Crisis Group. Ad esempio se le vecchie istituzioni non cedono il posto a quelle nuove, esattamente come successe a metà 2014 con Tripoli e Tobruk. In questo caso si avrebbero invece la bellezza di tre governi e quattro parlamenti. Un governo credibile, poi, dovrebbe potersi riunire nella capitale Tripoli: ma la città è in mano a milizie armate e poco inclini al compromesso. Per non parlare del ruolo del generale Haftar, influente su Tobruk ma odiato a Tripoli, di certo poco propenso a farsi da parte in nome dell’unità nazionale. Poi c’è il nodo del petrolio: di recente anche la compagnia nazionale NOC si è divisa in due, con la sezione orientale che annuncia di aver trovato i primi acquirenti.
Il ruolo dell’Italia
Non è un mistero che molti paesi occidentali abbiano fretta di avere un solo legittimo interlocutore per attaccare le cellule dell’Isis a Sirte, come è emerso qualche giorno fa dalla conferenza di Roma sulla Libia. La Francia sorvola la città dal giorno dopo gli attentati di Parigi, la Gran Bretagna è pronta a inviare un migliaio di uomini mentre gli Usa hanno già alcuni uomini delle Forze Speciali.
Cosa può succedere? L’ipotesi più probabile è una missione internazionale avallata dall’Onu e guidata dall’Italia con due obiettivi: mettere in sicurezza Tripoli e addestrare le nuove forze di polizia e reparti dell’esercito. Saranno questi gli ambiti in cui il personale italiano potrebbe essere utilizzato (lo ha già fatto per alcuni mesi a cavallo tra 2013 e 2014), vista l’esperienza accumulata in altri teatri come Afghanistan, Kosovo e Libano. E proprio dal comando della missione Onu in Libano arriva il generale italiano Paolo Serra, nominato il mese scorso braccio destro di Kobler per la sicurezza. E cambia qualcosa anche per quanto riguarda il controllo dei flussi migratori. L’accordo può portare alla fase 3 la missione europea EuNavFor Med (in cui l’Italia gioca un ruolo di primo piano), con interventi contro i network degli scafisti libici sia nelle acque territoriali sia via terra.
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