SERBIA: Ecco perché l’Italia è il primo partner commerciale

Da BELGRADO – L’Italia rappresenta dal 2013 il primo partner commerciale della Serbia. I dati dell’Istituto di Statistico della Serbia parlano chiaro: 2,38 miliardi di dollari di beni esportati verso la Serbia, mentre l’import è di 2,36 miliardi; le aziende italiane in Serbia sono oltre 500, per un totale di 20.000 persone occupate; la quota di capitale investito supera i 2 miliardi di euro, ed il volume totale degli affari supera i 2,5 miliardi di euro.

Stando a questi dati, l’Italia dal 2013 ha superato persino la Germania, fermo restando che l’Unione Europea nel suo complesso resta la prima destinazione delle esportazioni serbe, con oltre il 55% dei prodotti indirizzati al mercato UE.

Inoltre, le compagnie italiane sono presenti, con un regime quasi-monopolistico, nella maggior parte dei settori in crescita: quello automobilistico, con FIAT che rappresenta l’1% del PIL serbo; quello bancario, con Banca Intesa e Unicredit che detengono oltre il 25% del mercato; quello delle assicurazioni, con Generali e Sai Fondiaria che possiedono il 45% del mercato; il settore tessile, con i marchi Calzedonia, Pompea e Benetton in testa; il calzaturiero, dove domina la fabbrica Geox di Vranje; infine, quello agricolo, con un accordo in divenire con il gruppo Ferrero che consentirà agli italiani di iniziare in Serbia la coltura delle nocciole serbe per i propri prodotti.

La regione a statuto autonomo della Vojvodina, nel nord del paese, contribuisce alle esportazioni al 32% e si conferma quindi non solo come il “granaio della Serbia” ma anche come piattaforma per quelle aziende che lasciano il Bel Paese per delocalizzare o, come queste preferiscono definire, internazionalizzare.

L’origine di questa cooperazione commerciale iniziò ai tempi della Jugoslavia socialista, quando nel 1953 la FIAT concluse un accordo di cooperazione con la fabbrica automobilistica Zastava che consentiva a quest’ultima di produrre su licenza diversi modelli FIAT, che avrebbero poi segnato una svolta per il mercato jugoslavo, sia interno che per l’estero, considerato che per esempio la “Yugo 45” (una versione un po’ più “spigolosa” della nostra Fiat 127) ottenne un discreto successo anche sul mercato americano, per via del costo poco eccessivo e per le sue prestazioni.

Come noto, infatti, la fabbrica FIAT di Kragujevac (FAS) rappresenta lo stabilimento più grande del gruppo automobilistico italiano. L’accordo di delocalizzazione, o internazionalizzazione che dir si voglia, risale al 2009 e prevede una partecipazione FIAT del 67% mentre il 33% ricade al governo serbo. E’ un esempio raro di accordo firmato tra un governo di uno stato sovrano e una azienda privata. A proposito dell’accordo, è giusto sottolineare che nonostante una delle due parti sia un ente pubblico esso rimane ancora segreto e solo alcuni dei suoi punti sono di dominio pubblico. Tra questi, la concessione del territorio dello stabilimento di Kragujevac, che ospita anche tutte le aziende che producono nell’indotto, per appena 1 euro e gli incentivi statali fino a 10 mila euro per ogni dipendente assunto. A tal proposito, va detto che lo stipendio medio degli operai della FAS si aggiro attorno ai 300 euro, poco al di sotto del salario medio serbo.

La forza lavoro ben qualificata e a basso costo è quindi uno dei principali stimoli per le aziende italiane che decidono di investire nei Balcani. In generale, poi, l’Italia è attratta, come le altre aziende europee, dal fatto che, in virtù dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione firmato con l’UE, del Generalized System of Preferences firmato con gli USA e dell’esenzione dal pagamento dei dazi doganali per gli scambi con la Russia, le aziende che investono in Serbia hanno la possibilità di esportare verso un mercato di oltre un miliardo di persone.

Quel che è interessante sottolineare è che, in virtù degli accordi internazionali con la Serbia, un prodotto destinato all’esportazione è considerato “made in Serbia” se i materiali integrati provenienti dai mercati UE, CEFTA, EFTA e Turchia portano a una trasformazione del prodotto superiore al 50,01%, il che rende comprensibile il perché l’Italia importi veicoli, abbigliamento e calzature a fronte di esportazioni, verso la Serbia, di prodotti destinati allo stesso settore, ovvero veicoli, filati e prodotti tessili. Ciò significa che l’Italia esporta prodotti italiani destinati ad essere lavorati in Serbia per poi essere importati sul mercato italiano da aziende italiane in Serbia come prodotti finiti serbi.

Ciò che rende la Serbia una meta ambiziosa è anche il regime fiscale estremamente vantaggioso: oltre ai sussidi statali per le nuove assunzioni, non sono previste tasse sugli utili per 10 anni per quelle aziende che hanno un fatturato uguale o superiore a 8 milioni l’anno e almeno 100 nuovi assunti; non è prevista l’IVA e sono garantite agevolazioni fiscali in ben 14 zone franche (tra cui Subotica, Novi Sad, Zrenjanin, Šabac, Kragujevac e Belgrado); non sono previsti dazi per l’investitore per l’importazione di materie prime e semilavorati quando destinati all’export; infine, l’IVA in Serbia è al 20%, l’imposta sull’utile di esercizio sociale è al 15%, mentre la ritenuta fiscale sui dividendi è al 20%.

Questo vantaggioso sistema di incentivi agli investimenti comporta due conseguenze: il primo è la privatizzazione di diverse aziende statali, considerato che il governo Vučić ha un ambizioso piano di diminuzione della spesa pubblica; secondariamente, la chiusura se non il collasso di diverse imprese locali. Le aste pubbliche, così come gli incentivi, infatti, risultano stimolanti per lo più per le aziende straniere, che hanno una consolidata esperienza sul mercato e più facilmente potranno aggiudicarsi gli appalti. Inoltre, i programmi di incentivi e sussidi ammazzano la concorrenza impedendo ai produttori locali un equo accesso al mercato, non potendo questi usufruire delle agevolazioni di costi e concessioni territoriali destinati agli investitori stranieri, creando quindi regimi monopolistici derivati anche dalla totale svendita di quelli che una volta erano colossi economici.

In molto casi le aziende italiane sembrano più voler approfittare del regime di sovvenzioni dello stato serbo, considerato che questo pone loro l’obbligo di restare in Serbia massimo dieci anni, piuttosto che creare piani d’investimento nel lungo periodo. Esiste quindi il timore che si possa trattare di “stabilimenti mobili”, pronti ad essere smontati ed indirizzati verso nuovi mercati il cui regime fiscale sia ancor più vantaggioso. Come accadde con le compagnie italiane in Romania che si spostarono in Serbia per via degli aggiustamenti in termini fiscali in seguito all’ingresso in UE di Bucarest.

Quel che per le aziende italiane rappresenta una piattaforma per gli investimenti è in realtà un mercato al collasso, destinato ad essere svenduto a causa della crescita poco sostenibile, del debito dilagante e di una disoccupazione che viaggia al 22%.

L’economia serba e l’attuale programma di incentivi agli investimenti rappresentano un esempio del lato più violento ed incondizionato del sistema capitalista, portato avanti con la connivenza tra stato e imprese straniere, mentre non è garantita alcuna prospettiva di crescita al mercato locale del lavoro, condizionato dall’incapacità di reinserimento dei lavoratori e dalla fuga verso l’estero dei giovani laureati.

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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