LITUANIA: Vasiliauskas assolto a Strasburgo. La repressione sovietica non fu genocidio

La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato la Lituania per violazione dell’articolo 7 della Convenzione (irretroattività del diritto penale) nel caso Vasiliauskas – un ex agente del KGB condannato dalle corti lituane per “genocidio” per aver ordinato di fucilare due fratelli partigiani lituani nel 1953.

I fatti risalgono al periodo successivo all’occupazione sovietica dei paesi baltici, all’inizio della seconda guerra mondiale. Una volta occupati e annessi i paesi baltici, i sovietici si trovarono di fronte ad un’insurrezione popolare di grandi dimensioni. Secondo le stime degli storici, il movimento partigiano anti-sovietico comprese 10.000 persone in Estonia, 10.000 in Lettonia e 30.000 in Lituania – i “fratelli della foresta” – con un ampio sostegno popolare. I partigiani lituani controllarono intere regioni, fino al 1949, e rallentarono il consolidamento del potere sovietico in Lituania tramite sabotaggi, imboscate, assassinii e propaganda. Ma la loro era una battaglia persa in partenza, di fronte ad un nemico incommensurabilmente più forte. Per chi veniva catturato si prospettava la morte o la deportazione in Siberia. La guerriglia continuò fino al 1956, quando la superiorità dell’esercito sovietico costrinse le popolazioni ad adottare altre forme di resistenza. Due terzi dei partigiani lituani vennero uccisi dai sovietici, l’ultimo – Adomas – nel 1965. L’ultimo partigiano, Benediktas Mikulis, riemerse dalla macchia solo nel 1971. Secondo Ineta Ziemele, in proporzione si trattò di un movimento tanto radicato quanto quello dei Viet Cong nel Vietnam del Sud.

In tale contesto, nel 2004 Vytautas Vasiliauskas venne condannato da una corte lituana per aver partecipato alla deportazione ed uccisione dei fratelli Burininkas, membro del movimento partigiano, nella regione di Sakiai. Secondo i giudici lettoni, l’ex ufficiale del KGB avrebbe agito con l’intento di sradicare il movimento partigiano; Vasiliauskas venne quindi condannato a 6 anni di reclusione (da cui fu comunque esentato per l’età avanzata) per “genocidio” in base all’articolo 99 del codice penale lettone, emendato nel 2003, che include tale fattispecie giuridica anche per l’uccisione di membri di un gruppo politico.

La corte di Strasburgo, tuttavia, ha ribaltato tale interpretazione giuridica delle corti lituane. Secondo i giudici della CEDU, infatti, il codice penale lituano del 2003 è troppo ampio nella sua definizione del crimine di genocidio come applicabile anche a membri di gruppi politici – cosa esclusa invece dalla Convenzione ONU del 1948 contro il genocidio, che ne riserva la definizione all’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Viene inoltre rigettata, per mancanza di giustificazione, l’interpretazione della Corte Suprema lituana dei partigiani come “rappresentanti della nazione lituana”. Secondo la CEDU, Vasiliauskas non avrebbe potuto ragionevolmente sapere nel 1953 che tali atti sarebbero stati poi qualificati come genocidio e come tali gli sarebbero stati imputati. La sua condanna va pertanto contro il principio dell’irretroattività del diritto penale.

In passato, in casi simili (Kononov e altri v Lettonia, Kolk and Kislyiy  v Estonia), la CEDU aveva sottolineato che il principio di irretroattività del diritto penale non si applica a genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Nel caso di Vasiliauskas, tuttavia, la CEDU ricorda come l’interpretazione espansiva della definizione di genocidio non sia sempre giustificata. Nel caso in questione, è la scivolosa definizione del gruppo-bersaglio (“movimento politico” piuttosto che gruppo etnico o nazionale in sè) a rendere poco convincente la giurisprudenza lituana quando qualifica tali fatti come genocidio. Resta inoltre importante il contesto: durante l’occupazione tedesca della Lituania, nel 1941-44, nazisti e collaborazionisti locali sterminarono il 90% dei 200.000 membri della comunità ebraica lituana. L’occupazione sovietica, prima nel 1940-41 e poi di nuovo dal 1944, vide 275.000 lituani imprigionati ed esiliati, e la morte di 20.000 partigiani e loro sostenitori.

Nel 2014, la Corte Costituzionale lituana aveva stabilito che le corti domestiche potevano qualificare le deportazioni e repressioni sovietiche contro il movimento partigiano come genocidio, in quanto prova dell’intento sovietico di distruggere una parte significativa della nazione lituana – ma non applicare retroattivamente le pene. Il caso Vasiliauskas potrebbe diventare rilevante, in futuro, nel dibattito storiografico sui crimini sovietici nei territori occupati. La nozione di genocidio non va banalizzata, e la prosecuzione giudiziaria dei responsabili delle persecuzioni sovietiche non può essere fatta con strumenti legali inadeguati.

Foto: Nomi delle vittime del KGB lituano iscritti sul muro dell’ex sede di Vilnius. Philip Capper, Wikicommons

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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