CALCIO: Albania sconfitta dalla Serbia, ma a perdere è stato il nazionalismo

Alla fine tutto il clamore si è risolto nei quattro minuti di recupero: un rasoterra angolato di Aleksandar Kolarov al 91’ e il raddoppio di Adem Ljajić al 94’ sono quello che rimarrà agli annali di Albania-Serbia, la gara di ritorno – a distanza di un anno – della famigerata partita interrotta dal drone con la bandiera nazionalista albanese. A festeggiare nello stadio di Elbasan sono solo la settantina di studenti serbi invitati dal premier albanese Edi Rama in segno di distensione. Dall’altra parte, un silenzio irreale, quello di chi pensava di portare a casa la qualificazione a Euro 2016 in una gara così attesa, contro i rivali di sempre.

Per la Serbia era importante rialzare la testa: ormai fuori dai giochi per la qualificazione, gli uomini di Radovan Ćurčić dovevano scongiurare l’ultimo posto e provare almeno a salvare l’onore di una deludente campagna. L’unica vittoria fino a ieri, il 2-0 sull’Armenia, era stato vanificato dalla sconfitta a tavolino con l’Albania a Belgrado e dalla deduzione di tre punti comminata proprio per i disordini avvenuti dopo l’ingresso del drone. Dall’altra parte l’Albania di Gianni De Biasi, complice la vittoria del Portogallo sulla Danimarca, avrebbe potuto con una vittoria entrare nella storia, guadagnandosi la prima qualificazione a un evento sportivo internazionale nella storia del paese. La squadra, priva di veri fuoriclasse e spinta soprattutto dal collettivo, è comunque sicura di disputare almeno i play-off, ma avrà una nuova occasione per scrivere la storia già domenica sera a Erevan contro l’Armenia. La Danimarca, senza più partite da disputare, è a un solo punto di distanza e gli armeni, ultimi in classifica, non dovrebbero essere un avversario irresistibile nemmeno di fronte al pubblico di casa.

L’avvicinamento alla partita era stato segnato dalle discussioni relative alle misure di sicurezza poste in essere e dalla figura di Ismail Morina, l’uomo che aveva rivendicato la responsabilità del drone della gara di andata. Morina è stato arrestato alcuni giorni prima della gara per possesso illegale di armi e, nella sua vettura, erano stati trovati 36 biglietti della partita. La curva albanese ha cantato durante l’incontro alcuni cori in suo sostegno ma, secondo Nick Ames del Guardian, quella è stata l’unica controversia di una serata in cui «nemmeno un fumogeno è stato acceso durante l’intero match» e in cui la foto fatta dalle due nazionali unite è stata accolta da – per quanto leggeri – applausi. Il dispiego di forze di sicurezza è stato ben visibile, nella forma di alcuni cecchini posti sul tetto di un palazzo di fronte alla tribuna principale della Elbasan Arena. I numeri parlano di 1.500 agenti di polizia, 400 guardie private e 100 membri della Guardia Nazionale. Non tutto è filato liscio: nel tragitto dall’aeroporto all’albergo una sassata ha infranto un vetro del bus della nazionale serba, senza provocare alcun ferimento. La permanenza dei serbi è stata comunque blindata, portando alla chiusura dell’autostrada che collega Tirana a Elbasan – sede dell’incontro – per evitare ulteriori aggressioni al convoglio serbo.

Alla fine, la rete del raddoppio è stata segnata da Adem Ljajić, bosgnacco del Sangiaccato e musulmano praticante. Ljajić aveva fatto parlare di sé per la sua esclusione dalla squadra da parte dell’ex CT della nazionale Siniša Mihajlović, dovuta al rifiuto del giocatore di cantare l’inno nazionale Bože pravde («per motivazioni religiose», secondo l’allenatore). Un rifiuto che, se visto senza il filtro di bigottismi patriottici, rispecchia una volontà di rappresentare il proprio stato senza venire meno alla propria storia e alle proprie convinzioni individuali. Anche il calcio, rappresentato come baluardo nazionalistico per eccellenza, soprattutto nei Balcani e nell’ex Jugoslavia, deve fare i conti con una narrazione che è molto più complicata e contraddittoria di quanto si voglia generalmente accettare.

Leida Ruvina, in un articolo sulla narrativa dell’incontro di ieri sera su Kosovo 2.0, sottolinea: «L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una profezia auto-avverante di “guerra” e “soldati pronti alla morte”. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un nuovo “mito del Maksimir”, 25 anni dopo la partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado che rappresenta la data simbolica in cui la dissoluzione della Jugoslavia – e le guerre – sono iniziate». Sebbene l’articolo non sia condivisibile in ogni suo punto (a partire dalla conclusione «Lasciamo che prevalga il senso comune di lasciare la palla da calcio fuori dalla rete della storia», pretesa utopica e idealistica), sicuramente è un sano monito contro una narrazione a volte esagerata ed esagitata.

Etrit Berisha, Lorik Cana, Elseid Hysaj, Vladimir Stojković, Branislav Ivanović, Stefan Mitrović e tutti i loro compagni non sono soldati andati alla guerra per il Kosovo o per vendicare offese nazionali che affondano le loro radici nei secoli. Lo diciamo pur convinti che il calcio sia qualcosa di più di 22 uomini in calzoncini; che, tolta la palla, restano gli uomini e le storie, non costrette entro i limiti rigidi del rettangolo verde e dei novanta minuti e che «La comunità immaginaria di milioni di persone sembra più reale quando assume la forma di una squadra di undici uomini con nome e cognome» (Eric Hobsbawm), come dichiariamo esplicitamente nella nostra pagina sportivaAlbania-Serbia è una gara controversa e una rivalità accesa, porta sicuramente con sé dei toni nazionalistici e le polemiche rispetto alla partita di Belgrado sono ancora fresche e vive, tanto da rendere necessarie misure di sicurezza straordinarie. Toni, polemiche e controversie che è giusto raccontare, senza voler per forza trovare nazionalismo e primitivismo dove non sono presenti, tenendo presenti le molteplici contraddizioni di una realtà non riallocabile in compartimenti stagni e idealistici e mantenendo l’onestà intellettuale di raccontarla per quello che è. Una partita di calcio.

Fonte: Federata Shqiptare e Futbollit (Facebook)

Chi è Damiano Benzoni

Giornalista pubblicista, è caporedattore della pagina sportiva di East Journal. Gestisce Dinamo Babel, blog su temi di sport e politica, e partecipa al progetto di informazione sportiva Collettivo Zaire74. Ha collaborato con Il Giorno, Avvenire, Kosovo 2.0, When Saturday Comes, Radio 24, Radio Flash Torino e Futbolgrad. Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla democratizzazione romena, ha studiato tra Milano, Roma e Bucarest. Nato nel 1985 in provincia di Como, dove risiede, parla inglese e romeno. Ex rugbista.

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2 commenti

  1. East Journal fa riferimento all’opinione pubblicata da Kosovo 2.0 (http://www.kosovotwopointzero.com/en/article/1897/sportswriters-or-war-reporters-in-elbasan-arena). Un articolo che (in tema di copertura giornalistica dell’evento) oggettivamente cita rispettive fonti mediatiche, e suggetivamente ricorda agli albanesi tifosi e giornalisti che esiste un altra Serbia da quella delle guerre, richiamando in fine ad un spirito sportivo per l’evento.

    East Journal considera tale richiamo “pretesa utopica e idealista”.

    A sorprendere è il titolo di East Journal “a perdere è stato il nazionalismo”, nonchè i vari punti dell’articolo che ricordano come in Albania, tra i tifosi albanesi e kosovari allo stadio, effettivamente a prevalere fu proprio la sportività, e la distinzione tra campo calcistico e campo di battaglia quando la squadra in questione era la Serbia. (La civiltà mostrata prende ancora più valore quando si ha presente che per i kosovari presenti nelle scalinate sono passati solo 16 anni dai massacri dei propri cari e l’esodo biblico dai crimini di guerra. Eppure i ragazzi in campo erano lì per giocare, e la squadra migliore ha vinto. Ecco perchè l’articolo aveva ragione a ricordarsi che chi deve stare calmo nel linguaggio usato in tale evento sono i giornalisti nei Balcani e oltre, non la tifoseria albanese.)

    In democrazia possiamo metterci d’accordo di non essere d’accordo. A condizione di verificare di aver ben capito un articolo citato, prima di considerarlo “non condivisibile”.
    Ecco perchè si consiglia una lettura più attenta della fonte citata.

    • Gentile Leida, le devo una risposta,
      non era mia intenzione offendere l’articolo, interessante, ben argomentato e, come ho detto, contiene un richiamo importante, che non è affatto stato squalificato a mio parere da quanto detto. La lettura, le assicuro, è stata attenta e interessata, ma temo che lei abbia compreso male la mia frase “non è condivisibile in ogni suo punto”, che era intesa a significare che “non tutti i suoi punti sono condivisibili”. Se avessi ritenuto l’articolo totalmente fuori strada, non l’avrei citato, gliel’assicuro: l’ho fatto proprio perché riteneva un monito che ho considerato importante. Se poi la discussione è sul perché non condivido alcuni punti, le dico subito la motivazione di fondo: ha ragione nel richiamare all’ordine il giornalismo nel trattare quella partita, ma se ha letto attentamente il mio articolo, capirà che non posso essere d’accordo con un’affermazione come «Lasciamo che prevalga il senso comune di lasciare la palla da calcio fuori dalla rete della storia». Sono fermamente convinto che sia utopico e idealista pensare che calcio, storia, politica e identità siano in qualche modo divisibili l’una dall’altra. Condivido gran parte del suo articolo, compresa la necessità di una narrazione meno esagitata, ma allo stesso tempo non posso non rivendicare il fatto che lo sport sia parte della narrazione dell’identità nazionale, di alcune ferite ancora aperte e, in fin dei conti, della storia.
      Spero di aver modo di discutere in maniera più pacata dell’articolo, eventualmente in via privata, e resto aperto e disponibile al confronto.
      Un saluto,
      Damiano Benzoni

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