di Antonio Storto – giornalista professionista che collabora con Redattore Sociale e East occupandosi di tematiche sociali e politica estera, con particolare attenzione verso il Medio Oriente.
da Redattore Sociale – Il 16 novembre del 2013, durante una visita ufficiale alla città di Diyarbakir, l’allora primo ministro turco Recep Tayyp Erdogan tenne un discorso che fu da molti giudicato una pietra miliare nel nascente processo di pace con la minoranza curda di Turchia. Erdogan – che un anno prima aveva avviato negoziati con il leader della guerriglia curda Adbullah Ocalan, detenuto in isolamento dal 1999 – si rivolse ai curdi della città e di tutto il paese promettendo che presto sarebbe arrivato il giorno in cui “i guerriglieri sarebbero discesi dalle montagne e le carceri si sarebbero finalmente svuotate”.
Ritorno agli anni bui
Due anni dopo, di quelle parole rimane appena un’eco retorica. Da un mese, Diyarbakir è tornata a essere una città in guerra. Nella capitale spirituale dei curdi di Turchia, le notti sono scandite dal rimbombare di bombe carta e armi automatiche, mentre gli elicotteri Cobra delle forze speciali dispiegano cecchini sui tetti dei quartieri contesi con lo Ydg-H, organizzazione giovanile vicina al Pkk di Ocalan.
La campagna antiterrorismo lanciata a luglio da Erdogan – che avrebbe dovuto scompaginare le basi siriane dello Stato islamico ma ha finito per rivolgersi quasi esclusivamente contro obiettivi curdi in Iraq e Turchia – ha fatto in fretta a sconfinare nei centri urbani del sud est. A Diyarbakir, tra i vicoli di Baglar, Surici e Kaynartepe, un’intera generazione di giovani curdi si sta unendo a una lotta che per due anni era rimasta silente: da settimane scavano trincee e innalzano blocchi stradali per impedire l’ingresso della polizia, i cui agenti sono spesso accusati di colpire nel mucchio, arrestando e malmenando civili ed attivisti. “Per trent’anni – ricorda Yilmaz, residente nel distretto di Surici, dove almeno tre persone hanno perso la vita – abbiamo dovuto convivere con il sangue che scorreva per queste strade. La tregua del 2013 ci ha fatto assaporare una stabilità che ora ci viene tolta da un giorno all’altro, ricacciandoci in questo incubo”.
Yilmaz gestisce una caffetteria nel cortile del bazar di via Gazi. Un paio di settimane fa, a poche decine di metri dal suo negozio, due uomini hanno aperto il fuoco sugli agenti di guardia a un commissariato, uccidendone uno sul colpo. Qualche giorno dopo – al termine di un rastrellamento andato avanti fino all’alba, scattato in risposta a un attentato dinamitardo alla sede del partito “Giustizia e sviluppo” (l’Akp di Erdogan) – la polizia ha freddato un ragazzino sull’uscio di casa, in uno dei vicoli che costeggiano le mura interne del bazar. “Qui ormai in molti corrono a chiudersi in casa dopo il tramonto” continua Yilmaz. “Stiamo tornando agli anni bui, ma questo non lo vuole nessuno. Non lo vogliono i civili, né i guerriglieri e i militari. Questa guerra appartiene soltanto a Tayyp Erdogan”.
Per tre decenni, la provincia di Diyarbakir è stata epicentro di un sanguinoso conflitto tra l’esercito turco e i guerriglieri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Abdullah Ocalan, all’epoca studente di scienze politiche ad Ankara, aveva fondato l’organizzazione per reclamare i diritti civili che per oltre mezzo secolo erano stati negati alla minoranza curda, la più ampia del paese (tra il 18 e il 30 per cento, secondo differenti stime).
Trent’anni di guerra civile
Fin dal regime dei Giovani turchi, le minoranze etniche di Turchia sono state oggetto di una feroce politica di repressione e assimilazione, più volte sfociata in bagni di sangue. Negli anni 70, quando il Pkk fu fondato, i curdi erano i più colpiti da campagne di questo genere. Oltre a vivere in condizioni di emarginazione e sottosviluppo, fin dalle scuole elementari i giovani erano sottoposti a veri e propri programmi di rieducazione, volti a sostituirne le tradizioni e la storia familiare con i dettami ideologici del Panturchismo. La riforma linguistica del 1928 vietò l’utilizzo della lingua curda, e successive leggi obbligarono i curdi ad assumere nomi che rimandassero ad ascendenze turche, oltre a bandirne la musica e i costumi. “Ogni mattina, a scuola – ricorda Kemal Attas, che ha trascorso 28 dei suoi 57 anni nelle carceri turche, dopo aver aderito al primo nucleo del Pkk – ci facevano marciare ripetendo slogan come: ‘né curdi, né arabi, qui siamo tutti turchi’. Per molti, in quegli anni, le origini curde divennero qualcosa di cui vergognarsi”.
Questo stato di cose ha creato terreno fertile per l’insurrezione armata lanciata nel 1984 da Ocalan. Ad oggi, si stima che la guerra tra il governo e i curdi abbia prodotto quasi 50 mila vittime, 18mila delle quali soltanto tra i civili. Centinaia di villaggi, sospettati di fornire riparo ai guerriglieri, sono stati assediati, bombardati e bruciati dall’esercito, che in questo modo ha dato inizio a una massiccia diaspora che ha portato almeno due milioni di contadini a cercare riparo nelle città e fuori dai confini turchi. “Avevo sette anni – ricorda Orhan, che nel 1993 è dovuto fuggire dal suo villaggio nella piana di Fis, sulle montagne che sovrastano Diyarbakir – quando i militari vennero a bussare alla nostra porta. Da giorni ci avevano circondati, e ci diedero 24 ore per abbandonare la nostra casa. In caso contrario, dissero che ci avrebbero ucciso, bruciandola con i nostri corpi dentro”.
Nel 2010, dopo aver passato quasi vent’anni da transfughi alla periferia di Diyarbakir, i genitori di Orhan sono tornati nel loro villaggio. Il ricordo dei roghi nelle valli del Kurdistan turco, a quel punto, sembrava confinato agli anni 90. Ma ad agosto quelle foreste sono tornate a bruciare; e da giorni le fiamme hanno preso a lambire anche le vigne che circondano la loro masseria. “Sono stati loro” dice Cemil, 38 anni, indicando gli elicotteri che da giorni sorvolano l’area in cui gestisce una stazione di servizio.
Il sudest in fiamme
“Qui l’esercito non si avvicina più, perché la presenza dei guerriglieri è troppo massiccia. Ogni volta che provano a combatterli sul terreno, qualcuno di loro ci lascia la pelle. Allora tentano di stanarli in volo, ma così va a finire che colpiscono a casaccio. Quando va bene, lanciano una bomba sugli alberi e mandano tutto a fuoco. Ma se credono di averne individuato qualcuno in un centro abitato, iniziano a sparare. E spesso capita che colpiscano i civili”. Mentre Cemil parla, il fumo denso degli arbusti continua a levarsi dalla vallata sottostante, dove decine di uomini stanno cercando di spegnere l’incendio gettando secchiate d’acqua sulle fiamme.
Procedendo verso Lice, a circa un chilometro dalle autopompe, c’è la cascina abbandonata in cui nel 1978 ebbe luogo il congresso fondativo del Pkk. In più punti, la strada è interrotta da blocchi di terriccio alti fino a un metro e mezzo, che i giovani dello Ygd-H hanno eretto per impedire il passaggio di polizia ed esercito. Se in Turchia esiste una roccaforte dell’organizzazione, è di certo questa. Dalla fine di luglio, in queste strade, almeno quattro militari sono stati uccisi in imboscate o nell’esplosione di autobombe e mine telecomandate. Lo stesso è accaduto in altri distretti delle province di Siirt, Agri e Diyarbakir. “Per quanto ne sappiamo – spiega Orhan, percorrendo a ritroso la provinciale verso la fattoria – tutta questa strada potrebbe essere minata. Per questo i militari si vendicano bruciando le foreste”. Secondo una denuncia del Movimento ambientalista della Mesopotamia, nelle ultime settimane l’esercito avrebbe incendiato almeno diecimila ettari di boschi in otto diverse province della Turchia sudorientale.
La guerrigliera torturata
Ma altrove la situazione è anche peggiore. Nelle province di Hakkari, Mus, Sirnak, Agri e Diyarbakir, almeno 12 assemblee cittadine hanno disconosciuto pubblicamente l’autorità dello Stato, dichiarando un autogoverno de facto. Ad accendere la miccia, dopo una prima ondata di arresti che avrebbe portato in carcere circa 200 tra attivisti e parlamentari, è stata una sequenza di fotografie circolate ai primi di agosto sui social network. Le immagini ritraevano il cadavere nudo e torturato della guerrigliera Kevser Elturk, mentre veniva trascinato per i piedi da un gruppo di soldati. Di qui alla guerra aperta, il passo è stato breve.
Man mano che i centri urbani di Silopi, Varto, Cizre, Silvan, Lice e Yusekova si dichiaravano indipendenti, i giovani dello Ydg-H hanno preso in mano le armi, scavando trincee e innalzando fortificazioni. Anche stavolta, la risposta dell’esercito non si è fatta attendere. Stando a un recente resoconto del Partito democratico dei popoli (Hdp), decine di civili avrebbero perso la vita nei conseguenti attacchi delle forze speciali; mentre una fiumana di centomila sfollati avrebbe già abbandonato le proprie abitazioni, in una quindicina di province dichiarate “zone di sicurezza temporanea”. “Le forze armate stanno assediando intere cittadine” spiega Feleknaz Uca, parlamentare Yazida eletta con l’Hdp, inviata con un gruppo di osservatori a monitorare gli scontri esplosi a Lice e Silvan. “Hanno chiuso le vie d’accesso, tagliato le linee di comunicazione e dopo qualche giorno hanno iniziato a bombardare con i mortai, prima di entrare in forze”. “In questo modo – conclude, mostrando le immagini di abitazioni sventrate dal fuoco d’artiglieria – è inevitabile che anche i civili vengano colpiti”.
Pace incompiuta
L’Hdp è la formazione filocurda che alle parlamentari di giugno ha conseguito un risultato storico, superando lo sbarramento del 10 per cento che il sistema elettorale turco impone per l’ingresso in parlamento. Raccogliendo consensi tra la borghesia progressista e i contestatori di Gezi Park – oltre a recuperare terreno tra l’elettorato curdo più tradizionalista – per la prima volta un partito della sinistra curda è riuscito a entrare a palazzo Kucuksu con 80 parlamentari. Questo però ha ridimensionato drasticamente le ambizioni di Erdogan; il cui Akp – con 67 seggi in meno rispetto al 2011 – ha dovuto rinunciare a formare un governo monocolore, e dunque alla riforma presidenziale che avrebbe accentrato enormi poteri nelle mani del neo Sultano. Per molti analisti internazionali, la nuova ondata di violenze è il prezzo che i curdi stanno pagando per la vittoria del loro partito. “Avendo perso voti tra i curdi e la borghesia – accusa Ziya Caliskan, ex insegnante di lettere eletto con l’Hdp nel collegio di Sanliurfa – Erdogan aveva bisogno di recuperare con l’ultra destra. Questa guerra è il pegno che il suo partito ha offerto ai nazionalisti dell’Mhp per ottenerne l’appoggio in un governo di coalizione”.
Le famiglie dei militari contro Erdogan
Finora, però, le cose sono andate diversamente. Il 22 agosto, i colloqui per formare un esecutivo allargato sono definitivamente naufragati; così, qualche giorno fa, il premier Ahmet Davutoglu si è trovato nella scomoda posizione di dover offrire ai curdi due ministeri nel governo che traghetterà il paese alle elezioni di novembre. Gli ultimi sondaggi, inoltre, registrano una crescita di consensi per l’Hdp; il cui leader, Selahattin Demirtas, ha evitato di farsi chiudere all’angolo, condannando “senza se e senza ma” le violenze da parte del Pkk.
Demirtas ha puntato il dito sull’Akp, colpevole “di fomentare una guerra civile”; ma ha fermamente condannato gli attentati ai militari, “figli di questa terra, nostri figli”. Anche l’esercito, del resto, sembra stia voltando le spalle alla guerra di Erdogan. Secondo il governo turco, sessanta soldati sarebbero morti dall’inizio delle operazioni. Ma per la prima volta, man mano che le loro bare tornano a casa, la rabbia dei familiari sembra rivolgersi verso lo stato. La scorsa settimana, un procedimento disciplinare è stato aperto nei confronti del colonnello della gendarmeria Mehmet Alkan, che aveva pubblicamente additato Erdogan come mandante morale della morte del fratello Alì, ucciso in un attentato nella provincia di Siirt. Nei giorni precedenti, episodi simili si erano verificati durante le esequie funebri di altri soldati.
Ma Erdogan non sembra intenzionato a riconsiderare le sue scelte. Nelle sue ultime dichiarazioni, il presidente ha ribadito che la guerra “continuerà finché l’ultimo terrorista non sarà morto”. Secondo i dati dell’agenzia Anadolu, sarebbero quasi 800 i guerriglieri uccisi dalla fine di luglio; ai quali se ne sommano oltre cento tra i civili e le forze armate. Quasi mille cadaveri, a marcare la distanza tra le speranze di pace della Diyarbakir del 2013, e l’incubo in cui la città è sprofondata.