E gli antichi poemi
per la gestante terra.
Con i versi mancanti.
Oh invaso dell’Atlantico
sacco amniotico delle scritture.
La storia annienta generazioni di giovani
[…] ma conduce all’unione
per volontà genitale[1].
recensione a Breviario mediterraneo di Predrag Matvejevic
Un faro, che potrebbe essere quello di Alessandria, ad illuminare la rotta fin dalla copertina. E la rotta è ardua a definirsi, disperazione dei librai “Breviario Mediterraneo” di Predrag Matvejević non ha collocazione negli scaffali, e le ha tutte: romanzo, saggio geografico piuttosto che storico, racconto di viaggio, prosa poetica. Capolavoro del “non genere”, grande cesta in cui si trovano in apparente disordine notizie che percorrono la storia e i popoli (Egizi, Fenici, Greci, Romani, Arabi, Veneziani…) e i paesi che toccano il Mediterraneo, anche quelli che ne sentono solo il vento e l’odore. Non è un diario di viaggio, anche se insegna a viaggiare, o un libro di bordo, anche se offre le coordinate per muoversi attraverso la geografia. Non è un dizionario, per quanto a volte sembra ricalcarne la struttura. Ha però del romanzo la forza narrativa, la capacità di trasportare il lettore attraverso i racconti brevi e nitidi. Un romanzo, già. E davvero aveva ragione Kundera quando nel suo “L’arte del romanzo[2]” diceva che tale genere letterario non ha regole, ma è un sacco vuoto da riempire di materiali eterogenei dopo la sbornia ottocentesca. E Matvejević, come Kundera, appartiene alla cultura slava mittel-europea che facilmente scavalca le rigide categorizzazioni e i compartimenti stagni. Di cosa parla dunque questo Breviario? Di Mediterraneo, si è capito, ma di un Mediterraneo fatto di luoghi che diventano personaggi. Luoghi minimi, la boa, il molo, il porto, fino all’ampiezza delle isole e delle penisole. Luoghi che sono la costa e la gente della costa, luoghi che sono migrazioni di popoli e filosofie.
Rispetto a Braudel, che ha voluto comporre un grande quadro storico-politico del Mediterraneo, quello di Matvejević è un libro che si potrebbe riassumere nel termine di geopoetica benché non manchi un capitolo “splendido”, come lo ha definito Claudio Magris nella prefazione, dedicato alla cartografia. Prima di arrivarci, però, occorre soffermarsi ancora sulla parte eponima, quel Breviario che pare una ricerca entro l’etimologia ideale e spirituale del Mediterraneo. Ecco allora che le onde “hanno un ruolo importante nella drammaturgia del mare, negli spettacoli, negli avvenimenti”. E qui l’autore ci guida nella varietà di denominazioni con cui sono indicate. E poi ancora, ecco i suoni delle onde: “rumore o voce, sussurri o mugghi, sciacquio o sciabordio?”. Ma non basta, e la ricerca filologica prosegue nei venti che erano un tempo “le divinità del Mediterraneo”, in grado di determinare il destino del mare e dei suoi naviganti. Già, perché il Mediterraneo non è uno solo, anzi si compone di molteplici acque che si fondono e vengono nominate in base alle coste e alle correnti: “il Mediterraneo nasce, cambia e talvolta muore con i suoi venti, umili o prepotenti”.
La seconda parte del libro è dedicata alle carte, da quelle dell’antichità fino alle moderne. Un viaggio nel tempo che è al contempo viaggio nello spazio. Le città costiere dell’antichità erano gelose del loro repertorio cartografico, le rotte e la conoscenza delle coste aprivano a nuove pescagioni e colonizzazioni. Differenti supporti erano utilizzati per le carte di terra e di mare, poiché differenti erano i mondi che si andavano a incontrare e diversi erano i moti di chi andava per la terraferma o per acqua: la tradizione greca separa periplo da anabasi. E dal Mediterraneo sono partiti i primi naviganti verso altri mari. Schillace di Carianda navigò, venticinque secoli fa, fino in India per conto dell’imperatore di Persia. Il cartaginese Annone oltrepassò lo stretto di Gibilterra nel 500 a.C. circumnavigando l’Africa. Il viaggio di Pitea di Marsiglia[3] lo ha spinto fino alle Isole di Mezzanotte, l’odierna Irlanda, e più a nord fino alla mitica Ultima Thule (forse le Shetland, o chissà, l’Islanda). Dal Mediterraneo partono rotte che uniscono la storia con il mito: isole leggendarie a segnare i confini del mondo, scienza, astronomia, medicina, chimica. E di queste ultime Matvejević ringrazia la civiltà islamica, il suo ruolo di connessione tra oriente e occidente ha aiutato l’Europa ha uscire dal Medioevo.
L’autore sembra (giustamente) convinto che, nella polimorfia semantica che ci circonda, la sola possibilità di significato sia nell’etimologia. E per questo ci dice che darsena e arsenale derivano entrambi dall’arabo darçanha, così altri termini marinareschi: admiral (ammiraglio) al-kathram (catrame, utilizzato nella costruzione delle navi. Arabo è il termine azimut, e il termine çifr (zero, da cui poi “cifra”) fino al al-gabr, da cui algebra, in origine indicava la riduzione di fratture ossee. E all’etimologia è dedicata l’ultima parte del libro, un vero e proprio lexicon del mare.
La parcellizzazione della realtà Mediterranea non è un semplice escamotage stilistico, atto a muovere la descrizione dal microcosmo al macrocosmo per mostrarne le analogie. Essa sottende a una visione che è anche politica dello spazio descritto. Vale a dire, il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose tra loro interdipendenti ma separate, non riesce a diventare un progetto. La sua riva settentrionale presenta un evidente ritardo rispetto al nord Europa, e altrettanto la riva meridionale rispetto a quella europea. Tanto a nord quanto a sud, l’insieme del bacino si lega con difficoltà al continente. Non è davvero possibile considerare questo mare come un insieme senza tener conto delle fratture che lo dividono, dei conflitti che lo dilaniano: in Palestina, in Libano, a Cipro, e ieri nel Maghreb, nei Balcani da sempre. Fino ai riflessi delle guerre più lontane, quelle in Afganistan e in Iraq, con la guerra al terrore che sempre più insinua nelle coscienze europee un anti-islamismo che il Mediterraneo non riesce a disinnescare, malgrado la Turchia nella Nato, malgrado il portato culturale islamico che ancora oggi echeggia nel lessico di tutte le lingue del bacino.
Entrambe le rive furono molto più importanti sulle carte utilizzate dagli strateghi che non su quelle che dispiegano gli economisti. Quello che fu il mare più importante della civiltà fino alla modernità, non ha saputo uscire dallo stretto che ne chiude i confini. Il suo portato di unità e divisione, la sua omogeneità e la sua disparità, la ricchezza derivante dall’essere una sola moltitudine, non è bastato: l’insieme mediterraneo è composto di molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici. Ed oggi le unificazioni necessarie sembrano essere quelle economiche. Ma un’unione mediterranea, più volte e in più modi tentata, non si è mai realizzata. Di recente il Presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, ha rilanciato il tema del Partenariato euro-mediterraneo. Il dibattito è dunque ancora aperto benché di ardua soluzione. Forse anche a causa di quella che è la peculiare cultura del Mediterraneo.
Non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno a un solo Mediterraneo. Esse sono caratterizzate da tratti per certi versi simili e per altri differenti. Le somiglianze, ci spiega Matvejević, sono dovute alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue sponde di nazioni e di forme di espressione vicine. Le differenze sono segnate da fatti d’origine e di storia, di credenze e di costumi. Né le somiglianze né le differenze sono assolute o costanti: talvolta sono le prime a prevalere, talvolta le altre. Il resto è mitologia. Percepire il Mediterraneo partendo solamente dal suo passato rimane un’abitudine tenace, tanto sul litorale quanto nell’entroterra. La ‘patria dei miti’ sembra avere infine sofferto delle mitologie, che essa stessa ha generato o che altri hanno nutrito. «Questo spazio così ricco di storia è stato vittima degli storicismi. Ha smesso di essere Storia per diventare oggetto nelle mani degli storici», per citare le parole dell’autore. «La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa si perpetua: l’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non s’identificano affatto. Un’identità dell’essere, amplificandosi, eclissa o respinge un’identità del fare, mal definita. La retrospettiva continua ad avere la meglio sulla prospettiva. Ed è così che lo stesso pensiero rimane prigioniero degli stereotipi»[4].
Il romanzo geopoetico di Matvejevic, dunque, non deve alimentare le suggestioni che richiama invero fin dalla prima pagina. Non a Salonicco symprotevousa si deve pensare, non alla biblioteca di Alessandria, non ad Algeri tamazight ed europea al contempo, non a Dubrovnik che fu Ragusa, repubblica marinara. Ma a Venezia bisogna pensare. Venezia simbolo di un Mediterraneo che affonda e che bisogna salvare.
[1] Pier Luigi Bacchini, da Mar Mediterraneo, in Canti Territoriali, Mondadori, Milano 2009
[2] Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano 1988
[3] Giovanni Rossi, Viaggio all’ultima Thule, Sellerio Editore, Palermo 1995
[4] Defne Gursoy, intervista a Predrag Matvejević, in Euromed / Fondazione Mediterraneo, http://www.euromedi.org/