Otto notti di coprifuoco, la città accerchiata dall’esercito, scontri durissimi fra militanti del PKK e soldati. Cizre è rimasta isolata per più di una settimana: elettricità a singhiozzo, farmacie chiuse, le ambulanze ferme ai posti di blocco disposti su tutte le vie d’accesso. In questa città di centomila abitanti della provincia a maggioranza curda di Şırnak, dove il fiume Tigri segna il confine con Iraq e Siria, venerdì 4 settembre l’esercito turco ha lanciato un’operazione contro quello che considerano un focolaio dell’insurrezione armata ripresa alla fine di luglio. A Cizre avrebbero trovato rifugio circa 80 militanti del PKK, aiutati da almeno 200 giovani che hanno imbracciato le armi in loro difesa. A una delegazione dell’HDP, il partito filo-curdo protagonista delle elezioni di giugno e parte dell’attuale governo tecnico pre-elettorale, è stato impedito l’ingresso in città. Sabato 12 settembre è stato revocato il coprifuoco, mentre continuano i controlli ai check point. Il bilancio provvisorio dell’intera operazione è di almeno 20 morti, fra cui molti civili.
Ritorno agli anni ’90?
Negli stessi giorni la Turchia è stata scossa dall’attentato di Dağlıca, il più sanguinoso nella storia del conflitto fra esercito e PKK, dove hanno perso la vita 16 soldati. A poche ore di distanza 13 poliziotti sono morti in un altro attentato vicino a Iğdır. L’esercito turco ha risposto penetrando in territorio iracheno con un’incursione via terra nella zona di Qandil, dove il PKK ha le sue basi arretrate. Da luglio avvengono quotidianamente scontri a fuoco in tutta la regione del sud-est, a maggioranza curda, mentre i caccia turchi bombardano le postazioni del PKK arroccate sulle montagne. Ma è ai fatti di Cizre che bisogna guardare con più attenzione: rischiano di diventare la nuova normalità e coinvolgere pesantemente la popolazione civile.
Gli ultimi mesi dimostrano che gli scontri hanno una dimensione che sembrava relegata agli anni ’90. Il PKK è presente in modo massiccio e stabile in molte città del sud-est, non soltanto sulle montagne al confine con l’Iraq. È in grado di tenere sotto pressione l’intero apparato di sicurezza con relativa facilità. Per le strade di una città non è necessario impiegare i quintali di esplosivo di Dağlıca e Iğdır per sventrare i blindati dell’esercito, bastano armi leggere. E i bersagli abbondano. Il PKK riesce a reclutare molti giovani e così la sua presenza si fa capillare.
L’esercito non può rispondere in modo tradizionale: niente caccia in azione, servono reparti specializzati per far fronte a quella che a tutti gli effetti è guerriglia urbana. Difficile anche colpire i vertici del PKK, che si possono facilmente disperdere e garantire continuità all’organizzazione. Questo scenario ha un costo altissimo per la popolazione: intere province militarizzate e un aumento delle vittime civili. Né l’esercito e il governo né il PKK sembrano intenzionati a fermarsi. E il PKK riesce a controllare sacche di territorio. Ci sono tutti gli ingredienti per trasformare gli scontri in un conflitto a bassa intensità che potrebbe durare a lungo.
Il ruolo dell’HDP
Difficile fare previsioni, per il momento. In un articolo pubblicato su East, Marta Ottaviani scrive che “quello che sta succedendo in Turchia è qualcosa a metà fra una guerra civile e una lotta fra bande, un regolamento di conti e una notte dei cristalli”. Di sicuro la dimensione politica complica il quadro. L’HDP potrebbe svolgere un ruolo di mediazione: non è un mistero che molti suoi deputati abbiano contatti con il PKK, e il co-presidente del partito Selahettin Demirtaş ha scelto di entrare nel governo ad interim che deve portare la Turchia alle elezioni anticipate del 1 novembre. Una mossa non scontata. Se l’AKP non ha avuto la maggioranza assoluta al voto di giugno è perché l’HDP ha scombinato i piani conquistando 80 seggi. Tenerlo sotto la soglia del 10% era – ed è tuttora – il primo obiettivo del partito di Erdoğan e Davutoğlu. Per Demirtaş accettare un posto nel governo targato AKP significa dimostrare maturità politica, ma rischia di deludere parte del suo elettorato – non solo curdo – se si dimostrerà impotente.
L’aspetto più preoccupante è che gli appelli di Demirtaş al PKK per un cessate il fuoco unilaterale sono caduti nel vuoto. Delle due l’una: o erano solo parole pronunciate per salvare la faccia (improbabile), oppure l’HDP non ha abbastanza presa sul PKK. Ancora più preoccupante è il fatto che identici appelli al PKK, questa volta lanciati da un dirigente dell’organizzazione come Duran Kalkan, sono ugualmente rimasti inascoltati. Se questa è la situazione, all’HDP restano ben pochi margini per mediare e bloccare l’escalation. E nelle sue ultime dichiarazioni Demirtaş sembra poco disposto a cercare compromessi a oltranza: “Cizre è la Kobane turca” suona piuttosto battagliero. Detto in altri termini, qui in gioco c’è la stessa legittimità politica del suo partito. L’HDP si trova a dover bilanciare il netto rifiuto della lotta armata, grazie al quale si è ritagliato un ruolo di mediazione fra stato e PKK, con la necessità di difendere la causa curda per non perdere consensi preziosi.
È davvero guerra civile?
Dal canto suo, l’AKP fa poco o nulla per placare gli animi. La retorica di Erdoğan e di molti esponenti del partito va consapevolmente in direzione opposta. Chiedere che venga tolta l’immunità ai parlamentari dell’HDP perché conniventi col PKK, rimuovere d’imperio il sindaco di Cizre (eletta in lista HDP) per aver dichiarato che è in corso una guerra civile, accanirsi contro i media di opposizione come Hurriyet, la cui sede è stata devastata due volte in tre giorni da manifestanti inferociti: tutto questo aiuta a formulare l’equazione curdo = PKK. Ben lontana dalla realtà, ma abbastanza appetitosa per quelle frange nazionaliste che si sono viste in azione negli ultimi giorni. Gli attacchi alle sedi dell’HDP e la ‘caccia al curdo’ non sono state confinate al sud-est, ma hanno toccato le principali città.
È davvero guerra civile? No, non lo è. Ma la conflittualità e la violenza che si stanno facendo strada a livello politico rischiano di lasciare un’impronta pesante sul tessuto sociale. La Turchia quest’anno ha già vissuto una campagna elettorale costellata di attentati e azioni intimidatorie. Fino a giugno i responsabili erano organizzazioni terroristiche, i marxisti-leninisti del DHKP-C in testa, e gruppi di matrice opposta che sembravano destinati a vita breve. Ora, nell’orizzonte del voto del 1 novembre, il rischio è che l’ispirazione degli attentati sia anche politica. Per superficialità dell’AKP, se non abbandonerà la retorica bellicosa sfoderata negli ultimi mesi. Per immaturità dell’HDP, se non rappresenterà davvero quella forza di mediazione che si propone di essere. La soluzione, con tutta probabilità, non arriverà dalle elezioni anticipate: finora l’AKP non ha guadagnato consensi, l’HDP non ne ha persi.