Due mesi fa, i paesi del gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) si presentavano al Consiglio europeo straordinario di Bruxelles con una posizione fortemente contraria al sistema delle quote appena promosso. Una posizione politically incorrect ma, in sostanza, fortemente condivisa da molti altri paesi membri che decidevano di aprire le proprie frontiere a quantità irrisorie di rifugiati rispetto alle proprie capacità economiche e gestionali.
Sono passati due mesi, appunto, ed in mezzo è filata via un’estate caldissima fatta di muri eretti, scontri tra polizia e migranti disperati, treni presi d’assalto, camion ricolmi di cadaveri e braccia marchiate a penna. Davanti a tanta drammaticità, molti degli Stati prima ciechi e sordi ad un fenomeno che sembrava riguardare solo le coste italiane e greche hanno cambiato idea. Al contrario, l’Europa centro-orientale, svelatasi come un tratto territoriale cruciale nella rotta balcanica verso la Germania “terra promessa”, ha continuato a fare quadrato su un atteggiamento di estrema ostilità e chiusura. Durante l’incontro straordinario tenutosi a Praga venerdì scorso, 4 settembre, i Primi ministri dei quatto paesi centroeuropei hanno sostanzialmente ribadito la loro contrarietà al meccanismo di ricollocamento voluto dall’UE.
Che cosa è stato detto alla riunione di Praga?
Dal comunicato ufficiale apparso sul sito del governo ceco (presidente di turno del Gruppo di Visegrád), si legge che i quattro Stati, profondamente colpiti dal fenomeno che ha provocato la morte di migliaia di migranti, vogliono continuare ad impegnarsi con un’azione concreta che rispetti i valori europei, i diritti umani e i principi basilari della solidarietà. In questo quadro, viene auspicato un dialogo costruttivo con l’UE, scevro da una battaglia di accuse reciproche, che possa andare a rafforzare il multisfaccettato ruolo europeo per affrontare il problema.
I V4 metteranno a disposizione risorse, uomini ed esperienza per incrementare le capacità d’azione di Frontex, dell’EASO (l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) e per intensificare la lotta ai trafficanti di uomini all’interno della Politica europea di Sicurezza comune e di Difesa. In più, verrà concesso un supporto più ampio ai programmi di cooperazione e sviluppo, sia con i principali paesi dove si origina il flusso migratorio, sia con quelli che vengono colpiti dal transito delle persone in fuga (Libano, Turchia, Giordania, Balcani occidentali).
Tuttavia, i V4 non hanno risparmiato una sonora “tirata d’orecchie” a Bruxelles che, a loro avviso è stata troppo lenta e parsimoniosa rispetto alla drammatica escalation degli ultimi mesi. Il comunicato denuncia infatti un’attenzione esclusivamente rivolta alla rotta mediterranea, e la mancanza di una nuova legge che chiarisca finalmente quali siano le responsabilità ed i compiti di ogni Stato per la protezione di Schengen ed il rispetto del Regolamento “Dublino III”.
A livello operativo, dunque, si richiede un sistema più efficace di registrazione e gestione dei rimpatri, una lista comune di paesi d’origine considerati “sicuri” per velocizzare il trattamento delle domande d’asilo, la creazione di “hot-spot” alle frontiere europee dove trattare tali domande, ed un programma di aiuti governato sia da un più forte principio di condizionalità, sia da un approccio strettamente orientato al risultato. A livello diplomatico, invece, viene proposta la riattivazione degli accordi con i paesi di origine, così da far ripartire il meccanismo dei ritorni sotto il coordinamento di Frontex; una collaborazione più forte con ONU, Lega Araba ed Unione Africana; un’azione politico-militare volta a stabilizzare Medio Oriente, Libia e Siria, con il supporto di USA e Russia. Bocciato (anzi ri-bocciato) senza mezzi termini il sistema delle quote, perché “la natura volontaria di qualsiasi misura di solidarietà e le capacità di ogni Stato non possono mai essere prevaricate”.
In termini concreti, le soluzioni proposte dai V4 guardano quindi fuori dal perimetro europeo: tolti i rifugiati “indispensabili” (che comunque anelano alla Germania, non certo all’Europa centro-orientale), tutti gli altri dovranno essere rispediti a casa in modo veloce ed efficiente. Parallelamente, l’UE dovrà muoversi per cercare di estirpare nel minor tempo possibile le cause primordiali di questi viaggi della speranza, potendo contare sull’aiuto dei V4 che si impegneranno a fornire qualsiasi tipo di assistenza direttamente nei luoghi di partenza. Una macchina della solidarietà e dell’impegno politico che si muove dunque in senso centrifugo: da Praga, Budapest, Varsavia e Bratislava verso Tripoli, Damasco, Asmara e Baghdad, con il primo obiettivo di evitare che i profughi riescano a mettere anche un solo piede all’interno dei loro territori.
E ora cosa succede?
Il meeting di Praga è servito per delineare la posizione comune dei quattro paesi da presentare al Consiglio UE dei Ministri degli Interni del 14 settembre, quando verrà decisa la nuova strategia operativa per gestire l’ingente fenomeno migratorio. Un Consiglio che si prevede già “di fuoco”, con le principali parti in causa divise quasi su tutto.
Nell’ultima settimana, infatti, i principali politici dell’Europa occidentale, dalla Merkel a Hollande, fino a Cameron, si sono mossi con dichiarazioni che hanno fatto riferimento ad una inevitabile presa di responsabilità da parte degli Stati membri UE. Le immagini così dure ed i numeri tanto alti hanno convinto quasi tutti ad allentare le serrature dei propri confini, ripartendo da quelle quote tanto vituperate fino a poco tempo fa. La Commissione si è già messa al lavoro per presentare entro giovedì un piano che possa ricollocare un numero complessivo di 160.000 richiedenti asilo, comprendenti non solo quelli approdati Italia e Grecia, ma anche in Ungheria. La più grande novità di questa iniziativa sarà però il meccanismo sanzionatorio, che colpirà direttamente gli Stati che non vorranno partecipare al ricollocamento. Sanzioni che, stando alle ultime prese di posizione, dovrebbero essere aspramente comminate a tutto il gruppo di Visegrád, già dettosi “favorevole ad accettare migranti solo ed esclusivamente all’infuori di un numero prestabilito da Bruxelles”.
Ma anche dal lato dialettico è già scattata la battaglia “Visegrád contro tutti”. Sia prima che dopo l’incontro praghese, i leader dei paesi centro-orientali hanno tenuto a ribadire che l’apertura delle frontiere causerà più morti di quelli già presenti, spingendo al viaggio un numero sempre crescente di persone (anzi, diciamo più propriamente di “pericolosi musulmani”) che non hanno i requisiti per essere considerati rifugiati. Come se non bastasse, il governo ungherese si è lanciato in un’ampia invettiva contro la Germania. “Il problema non è europeo, bensì tedesco. Tutti vogliono andare in Germania, nessuno vuole restare in Ungheria, Slovacchia o Estonia”, ha detto il premier magiaro Viktor Orbán davanti all’attonito Presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz. Il concetto è stato chiarito poco dopo dal capo di gabinetto del Primo Ministro ungherese, Janos Lazar, che ha detto: “le scene tumultuose della stazione sono la conseguenza dell’incerta posizione della Germania, che ha fatto nascere delle illusioni nei profughi che non volevano più collaborare”.
Secca e senza mezzi termini la risposta della cancelliera tedesca Merkel: “la Germania fa ciò che è moralmente e giuridicamente dovuto. Né più, né meno”. Parole alle quali sono seguite azioni, prima tra tutte il via libera per l’accoglienza di migliaia di “immigrati ungheresi” nel weekend, il cui processo di trasferimento è stato agevolato sia dai pullman inviati da Budapest, sia dalla carovana di automobili formata da volontari austriaci. Ma anche a Belgrado e Sarajevo, non certo nel cuore della civiltà europea occidentale, gruppi di privati cittadini hanno deciso di organizzare una manifestazione di protesta davanti all’ambasciata ungherese. Un atteggiamento che è andato di pari passo con gli inviti dei primi ministri serbo e croato a rispondere a questa difficile situazione con “compassione, tolleranza e solidarietà europea”.
Da dove deriva una divergenza così forte?
Lo scontro è dunque totale, soprattutto se si pensa che non stiamo parlando di finanza o agricoltura, ma di accoglienza, integrazione e diritto d’asilo: valori fondamentali che dovrebbero essere l’A-B-C dell’Unione. Le radici di questa diffidenza verso le popolazioni immigrate sono molteplici, e le abbiamo già affrontate in altri articoli. Colpa dei media, colpa di società estremamente omogenee e “protette” da tutto ciò che è diverso. Colpa, forse, di comunità piccole e chiuse, tendenzialmente inclini al razzismo, che una volta se la prendevano con rom ed omossessuali ed oggi vedono nell’immigrato proveniente dal Medio Oriente o dall’Africa il pericolo da estirpare.
Ma non è tutto. Interessante a questo proposito è il contributo di due studiosi dell’Institute of International Relations di Praga, Michal Simecka e Benjamin Tallis, che hanno parlato della questione in un articolo recentemente pubblicato da Open Democracy. Secondo loro, la crisi dei migranti ha portato alla luce nei V4 una falla della democrazia liberale. Davanti all’emergere di gruppi di estrema destra o con forti contenuti nazionalistici, quali Jobbik in Ungheria, il Partito Popolare in Slovacchia o il Partito della Libertà in Repubblica Ceca, l’establishment politico di questi paesi ha preferito cavalcare l’emergente propaganda razzista anziché schierarcisi contro. Forse per paura di perdere consensi, o forse per cercare di sventare situazioni ben peggiori, i leader di Visegrád hanno deciso di farsi scudo con prese di posizione estremamente populistiche e chiuse. “Se dall’Europa democratica non verrà fuori una risposta razionale a questa crisi, la darà qualcun altro, magari usando metodi più vicini al fascismo” aveva detto il premier slovacco Robert Fico qualche tempo fa, facendo trapelare tutto il suo timore per uno spostamento dell’esecutivo ancora più a destra.
D’altro canto, gli oppositori di questa politica della diffidenza e della chiusura sono costituiti da piccoli gruppi intellettuali (circoli di pensiero, università ecc.) ed organizzazioni già attive nel campo dell’integrazione e della partecipazione democratica. Una collettività ristretta, obiettivamente staccata dal comune sentire della popolazione, con poco potere mediatico e nessun aggancio verso i poteri istituzionali. E’ così che il dibattito sui migranti rimane conteso tra una minoranza elitaria, liberale, certa della propria giustezza morale, e una maggioranza populista, convinta di essere l’unica detentrice della democrazia. Una lotta che sta esacerbando il tema accoglienza, trascinando sempre più verso il basso la qualità della politica nazionale di ogni V4. E che forse, sta allontanando indissolubilmente i paesi dell’ex Patto di Varsavia da Bruxelles. Se infatti prendiamo quest’ultimo attrito assieme ad altri episodi spinosi avvenuti durante l’ultimo decennio (vedasi anche la partecipazione alle ultime elezioni europee, che in tutta l’area ha totalizzato poco più del 20%), diventa lecito chiedersi: quanto riusciranno ad andare avanti insieme queste due realtà?