Nuovo giro di vite contro giornalisti e media di opposizione in Turchia. Martedì 1 settembre la polizia ha fatto irruzione negli uffici centrali del gruppo Koza Ipek e ha perquisito le sedi di 23 aziende controllate dalla compagnia. L’operazione ha coinvolto fra gli altri il quotidiano Bugun, le stazioni televisive Bugun TV e Kanalturk TV, e l’abitazione privata del direttore delle due emittenti, Erkan Akkus. La polizia cerca prove di presunti finanziamenti a quello ‘Stato parallelo’ che il governo e i media allineati hanno rinominato ‘Organizzazione terroristica dei Fethullahisti’ (FeTO). Il gruppo Koza Ipek infatti è considerato vicino al movimento Hizmet guidato da Fethullah Gulen, ex alleato del presidente Erdogan, che ora lo considera una delle principali minacce al dominio dell’AKP sulla vita politica del paese.
Il nuovo capitolo dello scontro fra Erdogan e Gulen fa intuire che l’AKP non ha nessuna intenzione di modificare la propria strategia in vista delle elezioni anticipate del prossimo 1 novembre. La campagna elettorale per le legislative del 7 giugno era stata inaugurata da una retata contro altri media legati a Gulen. A farne le spese, nel dicembre 2014, era stato il quotidiano Zaman. Altre operazioni hanno coinvolto giudici, vertici della polizia e esponenti dell’esercito, tutti accusati dal governo di costituire uno stato parallelo con l’obiettivo di destabilizzare il paese. Erdogan aveva anche provato a colpire le Dershane, scuole private di preparazione agli esami gestite da Hizmet e da cui provengono gran parte degli affiliati al movimento, con una legge ad hoc. Tuttavia la corte costituzionale ha bocciato il provvedimento con una sentenza emessa a metà luglio.
Le accuse di ‘terrorismo’
Nulla di nuovo? Non proprio. Adesso l’accusa – e la parola d’ordine – è ‘terrorismo’. E le differenze contano. A pochi giorni dalle elezioni di giugno Can Dundar, direttore del quotidiano d’opposizione Cumhuriyet, aveva messo in difficoltà l’AKP pubblicando video e foto che proverebbero il coinvolgimento del Mit, l’intelligence turca, nella fornitura di armi e munizioni ai ribelli siriani. Dundar quindi era stato accusato di spionaggio per aver commesso “crimini contro il governo” e per la “diffusione di informazioni riguardanti la sicurezza nazionale”. Accuse pesanti, alle quali è però possibile controbattere con il diritto di cronaca.
Ben diverso invece il caso della perquisizione al quotidiano Bugun, che segue di qualche giorno la pubblicazione di un articolo in cui si ricostruiva il passaggio di armi e esplosivi dalla Turchia allo Stato Islamico in Siria. L’accusa è di essere il braccio mediatico di un’organizzazione terroristica. Come rispondere? Il giornalismo e il suo carico di diritti e doveri è completamente tagliato fuori dalle aule di tribunale, dove invece entrano i legami (finanziari ma anche ideologici) con chi, magari ex post, è stato annoverato fra i terroristi.
Colpiti anche i media stranieri
Destino analogo quello di due giornalisti britannici di Vice News e del loro traduttore, arrestati il 27 agosto a Diyarbakir mentre coprivano gli scontri fra forze di sicurezza turche e militanti del PKK. In un primo tempo l’accusa a carico di Jake Hanrahan, Philip Pendlebury e Mohammed Ismael Rasool sembrava essere il semplice fatto di aver ripreso alcune scene senza i necessari permessi delle autorità. Ma il tribunale di Diyarbakir ha stabilito che la troupe era “impegnata in attività terroristiche” per conto dello Stato Islamico e stavano “intenzionalmente aiutando un’organizzazione armata”. Sembra che la base di tali accuse sia il semplice fatto che i giornalisti erano in contatto con esponenti del PKK della zona.
Negli ultimi anni – almeno dalle proteste di Gezi Park – la Turchia ha intensificato processi e attacchi contro i media e bloccato in più occasioni Twitter. Un clima fotografato dal crollo verticale negli indici sulla libertà di stampa: secondo Freedom House la Turchia passa dal 56 (su una scala dove 100 è il giudizio peggiore) del 2012 al 65 di quest’anno, quindi da ‘parzialmente libero’ a ‘non libero’. Di nuovo, anche in questo caso il governo non sembra intenzionato a cambiare rotta. Un regolamento del ministero dell’Interno pubblicato il 31 agosto sulla gazzetta ufficiale prevede fino a 4 milioni di lire turche (1,2 milioni di euro) di ricompensa per chiunque segnali alla polizia sospette attività terroristiche.
Formato il governo ad interim
Tutto porta a ritenere che le prossime elezioni si svolgeranno nello stesso clima di tensione che sta dominando la Turchia nelle ultime settimane. Gli scontri con il PKK iniziati alla fine di luglio interessano tutto il sud-est del paese e non accennano a diminuire di intensità. Gli appelli rivolti dal leader del partito curdo HDP Demirtas al PKK con cui chiedeva di interrompere unilateralmente le ostilità sono caduti nel vuoto. Dal canto loro, i social-democratici del CHP continuano ad accusare Erdogan di aver trascinato la Turchia a un passo dal baratro e di sacrificare la sicurezza nazionale per crescere nei sondaggi. L’AKP andrà a congresso il 12 settembre: un modo per serrare i ranghi in vista dell’incipiente campagna elettorale.
Intanto l’ex premier Davutoglu è riuscito a formare un esecutivo ad interim col solo scopo di portare il paese alle urne fra due mesi. Oltre a esponenti dell’AKP, nel nuovo governo figurano anche due deputati del HDP, Ali Haydar Konca e Muslum Dogan, che guideranno rispettivamente il ministero agli Affari europei e quello dello Sviluppo, e il deputato dissidente del MHP Tugrul Turkes, che ha scelto di non seguire la linea del partito accettando il posto di vice primo ministro. Il CHP ha scelto di non partecipare all’esecutivo. Siccome i posti dovevano essere ripartiti in base alla rappresentanza in parlamento di ciascuno dei 4 partiti, per i posti lasciati vacanti da CHP e MHP saranno incaricate personalità esterne.