Venerdì 7 agosto un gruppo di militanti curdi ha attaccato un posto di guardia militare nella provincia iraniana di Marivan, al confine con l’Iraq. L’azione è stata rivendicata in un comunicato dal YRK (Yekîneyên Parastina Rojhilatê Kurdistan, Unità di difesa del Kurdistan orientale), gruppo armato curdo attivo in Iran e omologo dei più noti PKK turco e YPG siriano. Il comunicato afferma che l’attacco avrebbe causato la morte di circa 20 Pasdaran. Al contrario le autorità iraniane, che confermano l’attacco, negano di aver subìto perdite e segnalano soltanto pochi danni materiali.
Non c’è ancora certezza assoluta su chi abbia materialmente condotto l’attacco, che è stato rivendicato ufficialmente da sigle diverse. Il primo comunicato è stato confermato dal PJAK (Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê, Partito per una vita libera in Kurdistan), di cui il YRK è il braccio armato. Dall’anno scorso il PJAK ha anche assunto la denominazione KODAR (Società libera e democratica del Kurdistan orientale), nel tentativo di allineare la propria agenda politica a quella di altri gruppi curdi, come il PYD siriano, il cui messaggio politico vuole essere universalistico e rivolto in particolare alle minoranze. Ma è comparso anche un secondo comunicato, questa volta firmato dal partito curdo iraniano Komala di ispirazione marxista, che smentisce il primo. Tuttavia, poiché non fornisce ulteriori dettagli relativi all’attacco, sembra meno attendibile di quello del PJAK.
Cosa dice la rivendicazione
Nel comunicato del PJAK il gruppo armato giustifica l’attacco di Marivan come rappresaglia per delle recenti operazioni militari dei Pasdaran dirette contro i curdi. In questo modo il governo iraniano avrebbe violato l’accordo di cessate il fuoco. In realtà un accordo formale non è mai stato stipulato. Nel 2011 il PJAK aveva annunciato unilateralmente la fine delle ostilità, ma gli ufficiali iraniani le avevano bollate come “senza senso” in quanto il gruppo non sarebbe effettivamente arretrato di là dal confine. L’Iran, insieme a Turchia e Stati Uniti, considera il PJAK un’organizzazione terroristica. Il gruppo fa parte del KCK (Koma Civakên Kurdistan, Gruppo delle comunità del Kurdistan), un organismo-ombrello che raggruppa gran parte delle formazioni curde a cavallo fra Turchia, Siria, Iraq e Iran ed esprime la linea politica comune, che si richiama ai dettami di Abdulla Ocalan.
L’Iran negli ultimi anni ha quindi continuato le operazioni di contrasto alle formazioni curde, incarcerando numerosi attivisti e alcuni dei leader del YRK. Le elezioni politiche del 2013 hanno mostrato un sensibile calo di supporto popolare verso i partiti curdi. Nelle zone del nord-ovest dell’Iran, dove la componente curda è maggioritaria, l’attuale presidente Rouhani ha raccolto più del 70% dei consensi. Incapace di progredire dal punto di vista politico come da quello della guerriglia, negli ultimi tempi il PJAK si era sostanzialmente ritirato sulle montagne di Qandil, lungo il confine fra Turchia e Iraq, mantenendo comunque una presenza militare sporadica in territorio iraniano. Altro indizio di debolezza: proprio su Qandil, base storica del PKK, erano in corso i raid aerei della Turchia quando nel 2011 il PJAK aveva offerto il cessate il fuoco all’Iran.
Perché aprire un nuovo fronte?
Pochi giorni prima di Marivan, il PJAK aveva rivendicato un altro attacco contro i Pasdaran, questa volta nella provincia di Kermanshah, nel corso della quale avrebbe ucciso 13 militari fra cui il comandante locale. L’attacco tuttavia non è stato confermato in via ufficiale dall’Iran. Sembra quindi che le formazioni curde iraniane abbiano ripreso la lotta armata. Ma a che pro? Quale vantaggio può derivare dall’apertura di un altro fronte, soprattutto in una regione dove storicamente sono più deboli? I raid turchi nella zona di Qandil stanno colpendo la roccaforte del PKK. Il premier della regione autonoma del Kurdistan iracheno al-Abadi non sembra disposto ad appoggiare i combattenti curdi, visto che nella dichiarazione in cui chiedeva la ripresa del processo di pace con la Turchia ha anche sostenuto che il PKK deve abbandonare l’Iraq del nord. In pratica è un accerchiamento. Suscitare una reazione dell’Iran proprio nell’unica zona dove la repressione è meno martellante non sembra la mossa migliore.
Inoltre il PJAK si trova oggettivamente in una situazione ben diversa da quella degli omologhi PKK e YPG. I primi continuano uno stillicidio quotidiano di attentati in Turchia, colpendo principalmente le forze di polizia ma anche sedi del partito di governo AKP e, di recente, il consolato statunitense a Istanbul. Il PKK dimostra quindi una notevole capacità di azione e, soprattutto, può ancora contare in Turchia su una base di supporto popolare, che manca invece al PJAK in Iran. L’YPG siriano e i peshmerga iracheni sono i principali alleati della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti nella lotta allo Stato Islamico, dunque hanno una legittimazione ‘di fatto’ che il PJAK non può raggiungere. E non bisogna dimenticare che l’Iran, benché in Siria continui (per il momento) ad essere la stampella di Assad, in Iraq è stato determinante per riconquistare ai miliziani del Califfato larga parte di territorio. In una situazione del genere, riprendere la lotta armata sembra davvero una mossa suicida.