Diciamocelo una volta per tutte: “terrorismo” è una parola inutile. E non solo inutile, è sbagliata – non solo la parola, anche l’idea prima di tutto – perché a ben guardare significa poco o niente. Eppure è ovunque, sulla bocca di tutti, su tutte le prime pagine dei giornali e nei discorsi degli uomini di governo di mezzo mondo. Un parola-mantra, ripetuta fino allo sfinimento nei contesti più diversi, dai personaggi più diversi, con un solo tratto in comune: nessuno, a quanto mi risulta, s’è mai sognato di definirsi un terrorista; se non in un’epoca post, da dissociato o pentito che dir si voglia. Terroristi sono sempre gli altri, quelli che non hanno ragioni da opporci, quelli che sono completamente differenti da noi, senza mai alcun punto di contatto (ma ne siamo sicuri? la società che ha prodotto Abu Ghraib e Guantánamo – ma anche Columbine e altre stragi – è poi così diversa dai nemici che ha combattuto?)
Terrorismo è, naturalmente, una parola che è entrata nelle case di molti dopo l’11 settembre, con un carico di frustrazione e rabbia i cui effetti hanno prodotto forse danni peggiori di quelli degli degli aerei abbattuttisi contro le Torri Gemelle. Un bagaglio emotivo che è andato ben oltre i limiti della parola, travalicando chi di quei tragici eventi fu il responsabile e rivesandosi in modo indiscriminato su di un’intera civiltà. Con un passaggio logico aberrante – un’inversione addirittura – si è passati allora dal terrorismo islamico all’Islam terrorista, come se ogni elemento di quella civiltà, prescindendo dallo spazio e dal tempo, avesse un legame preciso con quel singolo atto criminale. I germi di questo terrorismo andrebbero allora ricercati sin dalle origini storiche dell’Islam, e il contagio dovrebbe essere esteso in ogni paese e continente dove questo nei secoli ha preso piede. Fra la storia (poca) e la leggenda (molta), si sono voluti rispolverare per l’occasione il feroce Saladino e gli assassini di Marco Polo, per fare solo un paio d’esempi. Sempre a causa dell’inversione di cui sopra, il mio vicino musulmano, innocuo o – nel più dei casi – semplicemente ignorato prima d’allora, diventa anche lui un qualcosa (parlo di “cosa” non a caso) di prossimo a quell’atto omicida e cieco.
Ma, pur con tutto l’orrore e la risonanza di quell’evento, l’idea di terrorismo nasce molto prima nel cuore e nelle coscienze di molti di noi. Ne sappiamo qualcosa noi italiani. Qui però i terroristi erano rossi o neri, anche se l’inversione di cui sopra – come tema di fondo – resta. Comunisti e fascisti, in un solo calderone, diventano allora anche loro “quella cosa lì”, tutti dei terroristi: altri, diversi da noi, incompatibili con il nostro modo di essere e di vivere. Una pretesa al limite del ridicolo: come se socialismo e fascismo non avessero radici tenaci e profonde fin dalle origini almeno dell’Italia unitaria, come se non fossero una cosa che, in un modo o nell’altro (legami familiari, culturali, influenze più o meno rintracciabili) ci riguarda tutti da vicino.
Ma torniamo alla nostra parola, “terrorismo”, o meglio al suo uso. Che a ben guardare, appare spesso contraddittorio. La si è applicata di volta in volta a personaggi, gruppi e organizzazioni assai diversi, non senza provocare spesso – e a volte con ottimi motivi – l’ipotesi più opposta e contrastante. Arafat fu un eroe del popolo palestinese o un terrorista? E il PKK che combatte contro lo Stato Islamico? E che dire invece del gruppo armeno ASALA, che lottava per la liberazione dell’Armenia colpendo i diplomatici turchi? O ancora, tornando un po’ più indietro nel tempo, Gavrilo Princip fu un terrorista o un eroe? E il buon Mazzini? O infine i partigiani della Resistenza? L’unica risposta a questi dilemmi, che la cosa vi piaccia o meno, è che non c’è nessuna risposta. Il confine fra il combattente, l’eroe e il terrorista è labile, e in molti casi impossibile da rintracciare. Proprio perché, come dicevo, la parola – e l’idea prima di tutto – di terrorismo sono del tutto inconsistenti.
Un’inconsistenza di cui si rende conto in primo luogo chi si occupa di diritto. Non esiste, infatti – dato significativo – una definizione giuridica di terrorismo accettata di buon grado a livello internazionale. Ne esistono molte. Un’ambiguità, senza dubbio, funzionale agli interessi del momento dei vari attori e governi, ma che denota anche un problema più profondo. E cioè, che l’unica definizione ragionevole di questo fenomeno rimanda a una violenza da ritenersi illecita, destabilizzante o indiscriminata. Ma esistono davvero una violenza ragionevole, lecita o che mira alla stabilità?
Certo, quella dello Stato – risponderanno alcuni. Con una risposta che è però solo in appartenza risolutiva. Chi infatti può stabilire i limiti di questa, e se uno Stato – qualsiasi Stato (dalla Corea del Nord alla Cina, passando per il Medio Oriente, ad esempio) – sia legittimato a praticarla? I confini, ancora una volta, sono tutt’altro che netti, e si rischia di continuo di cadere nella retorica paradossale e ossimorica della guerra umanitaria. Caduta la maschera, non ci resta che ammettere: terrorista è il nemico che non conosco e soprattutto non voglio conoscere, perché altrimenti finirei per riconoscervi me stesso.
Ovviamente, dietro a questa parola e alla sua maschera odiosa, si nasconde un’apologia continua del reale e del potere, e tanto più la si usa – potete giurarci – quanto poco rivolto alla stabilità e alla pace sarà un regime o uno stato. È forse un caso – e lascio a voi la risposta – che la parola terrorismo sia la prediletta di personaggi così diversi e insieme simili come George W. Bush, Putin, Assad o Nethanyahu? E allora, una buona volta, gettiamola via questa maschera, e iniziamo a chiamare le cose con il proprio nome: violenza. Viviamo in un’epoca, quella dell’egemonia americana, che ha avuto come atto fondante l’atomica su Hiroshima. Possiamo davvero dire in coscienza che il dramma delle Torri Gemelle sia il frutto di una prospettiva così diversa? Aboliamola, dunque, questa parola maledetta, e iniziamo a guardare in viso il nostro nemico, e noi stessi, prima che sia troppo tardi.
Noam Chomsky ha lavorato a lungo sul termine terrorismo, concentrandosi in particolare sulla applicabilità a tante azioni politiche del suo Paese. Non credo tuttavia che il termine vada abolito, ne va abolito l’uso propagandistico e – soprattutto – l’incauto ascolto. La tensione contro l’abuso del termine è assolutamente condivisibile, ma per andare avanti servono strumenti linguistici più acuti e precisi, l’uso del termine violenza è purtroppo ancor più vago e non meno problematico. Chi fa del terrore una precisa, consapevole strategia è un terrorista: vero è che, spesso, per trovare il terrorista più vicino a noi (parafrasando “V”) non c’è che da guardarsi allo specchio.
Attenzione a non cadere nel relativismo, esimio Zoppellaro…
Tendenzialmente, si definisce terrorista l'”autore di atti di terrorismo contro un regime o un governo, al fine di abbatterlo o di creare tensione, disorientamento, sfiducia tra la popolazione”, definizione che calza a pennello, per esempio, per il terrorismo europeo degli anni ’70-’80.
Non é detto, peraltro, che il “terrorista” di cui alla definizione appartenga al medesimo Stato il cui “governo” egli intende destabilizzare. Quindi, é logicamente corretto estendere la definizione in questione a scenari “internazionali”, dove gruppi terroristici provenienti da determinati territori cercano di seminare il terrore in Stati o aree a loro tendenzialmente estranee. Dunque, vediamo, facciamo degli esempi attuali: i Ceceni verso la Russia? Al-Qaeda verso gli USA e l’Europa? L’ISIS verso gli USA, l’Europa e gli Stati arabi non allineati?
Ops, dev’esserci un errore, però: si tratta sempre di gruppi ad estrazione islamica… ;))
c’è decisamente un errore: Anders Breivik era un famoso islamico, e i ceceni sono russi. Si prenda tutto il tempo necessario per pensarci su.