Miron Bialosewski, accoccoloni impoltronato

L’incontro con Miron Białoszewski (ma non è un incontro, si inciampa in Miron Białoszewski e ti scappa persino un’ imprecazione quando girata la pagina ti accorgi di non averci capito niente!) non è di quelli che si fanno tra amici: «Gradisce un cordiale?». Proprio no, non è la cordialità la sua cifra stilistica. Non è possibile sedersi al tavolino di un caffè e sfogliare i suoi testi senza che ti vada il gin tonic di traverso. Troppo abituati a una letteratura consolatoria, nella quale potersi specchiare, nella quale riconoscersi -se non innocenti- almeno non colpevoli perché, in fondo, l’uomo è mendace e la sua natura fallace e non è colpa di nessuno e poi, male che và, c’è Dio o un suo surrogato a renderci la speranza, e poi e poi. E poi c’è Miron Białoszewski, senza ricette per una vita felice, senza morale alcuna da svendere come degli aspirapolvere porta a porta. Tanto più che Miron (il poeta Miron) di casa non ci usciva volentieri.

Fuori di casa c’erano i farfocle della PRL, «dziecinko/ wyjrzyj/ farfocle wisza/ farfocle strasza» i rimasugli della società polacca schiacciata dal regime comunista, e lui non aveva certo bisogno di uscire per vederli. Aveva assistito alla distruzione di Varsavia durante l’insurrezione, aveva contato una ad una le macerie lasciate dalla Seconda guerra mondiale lasciandocene una testimonianza anticonvenzionale nel suo Pamietnik z powstania warszawskiego del 1970. I sessantatre giorni di catastrofe sono narrati senza il pathos della lotta ma vengono scrupolosamente annotati da un civile ventiduenne tutt’altro che eroico, in cerca dei propri parenti e di un nascondiglio per scampare al disastro. Tutto ciò che è sopravvissuto alla catastrofe di una città rasa al suolo per il novantadue percento della sua superficie, i pochi oggetti superstiti, stanno tutti comodamente chiusi nel suo piccolo appartamento di periferia. Ciò che resta di Varsavia, sembra dirci il poeta, non c’è bisogno di uscire per vederlo, è tutto chiuso dentro.

Il suo orizzonte esistenziale sembra circoscriversi al divano-letto su cui passa le giornate, accoccolato sotto quello che chiama “il Carmelo”, la trapunta color caramello che si erge sul poeta come il monte biblico: «da quattordici anni / dormo penso mangio / sotto una stessa Carmelo»[1]. Ma, per dirla con Bernardini, non si pensi a solipsismo: «Białoszewski non prende nemmeno in considerazione lo stereotipo del poeta-demiurgo, nella sua variante totalitaria dell’ingegnere di anime o in quella romantica -non meno totalizzante- del poeta vate, possibilmente nazionale»[2]. Esplicativo in questo senso, fin dal titolo, è il componimento Fiasco della raccolta «Oho» (1985)[3]: Białoszewski proietta in una dimensione quotidiana qualunque avvenimento ma tale atteggiamento sembra, più che una scelta, una condizione: «l’ostentata incapacità di uscire dal bozzolo», dall’ «ellisse incantata […] della strada e dell’appartamento[4]». In una simile situazione anche recarsi al negozio sottostante diventa un’impresa: Prima cosa son scenduto in strada / per le scale / ah, immaginatevi un po’ / per le scale. / Poi conoscenti di sconosciuti / ho incrociato, e loro me. / Rammaricatevi / di non aver visto/ come la gente cammina / rammaricatevi! / Sono entrato in un assoluto negozio / splendevano lampade di vetro / ho visto qualcuno – che sedeva / e che ho sentito? … che ho sentito? / Stormir di borse, parlata umana./ Eh, credetemi / credetemi / son tornato.

Meglio restare accoccoloni impoltronato, qualsiasi spostamento diventa esperienza traumatica: quando giaccio non sono da alzare / giacere vuol dire radicare / non credo nel sommuovere / sempre verde allo strappo. Della vita esteriore registra solo i dialoghi di una quotidianità surreale: Tanto, tanto tempo fa, in via Tranquilla/ si otturò il cesso / chiamarono lo specialista/ indagò / deliberò:/ – troppa carta!/ poca acqua! / troppa carta! / poca acqua! / -e che fare? / -meno carta! più acqua! / meno carta! più acqua![5]

E in questa dimensione anche la storia sembra scomparire. Il poeta non ha alcuna intenzione di innalzarsi all’altezza dei grandi avvenimenti ma non può fare a meno di registrarne l’impatto nella vita di ogni giorno. Così la storia resiste, soltanto che è vista dal basso, dispersa in una miriade di dettagli, di piccoli particolari «terribilmente significativi per chi, più che viverla, la subisce»[6]. La storia, quindi, riportata alle dimensioni e nella prospettiva di annotazione quotidiana perché nel dettaglio si nasconde il dramma della storia.

Debolezza primaverile

La realtà esteriore è registrata a un volume più basso, attraverso gli altri, che vengono però considerati non in quanto esseri umani, degni d’attenzione in quanto tali, ma piuttosto come personaggi che interagiscono col poeta e con gli oggetti. Così anche l’arrivo della primavera, da sempre topos della rinascita e simbolo della vitalità, non viene percepito se non –infine- per esclusione: dalla finestra? dal calorifero?…ecco, di nuovo! / […] / so che di topi non ce n’è / […] / ho scoperto: gocciola / dai caloriferi corro/ a guardare, perché non mi / allaghi / […] / oh no! Per quest’ ipersensi / bilità ho preso per gocciolare/ lo scrosciare no / niente caloriferi: pioggia / su qualcosa della finestra (o fuori) cade/ …viene la primavera e fa paura / perché ormai non ci si crede più. Anzitutto il poeta, al rumore del gocciolare, pensa ai caloriferi. Si rivolge per prima cosa al suo mondo di oggetti. Ma questa volta il suo interlocutore è muto. Non dall’interno viene il gocciolare ma da fuori dalla finestra, dove il tempo ripete le stagioni. Solo dopo avere scartato tutte le altre ipotesi (i topi, un ladro, uno spirito, i caloriferi) si pensa alla realtà esteriore, a quella primavera che sembra incredibile nella Varsavia della “peerelowa” e nel poeta. Infatti non l’esaltazione vitalistica, non l’elegia amorosa, lo colgono. Piuttosto ad attraversare Miron è una certa debolezza: “sarà la primavera” finge di volerci dire ma è una stanchezza radicata, la stanchezza del vivere: Amate voi stessi a primavera? / perché io no. Oppure: Al soffio della primavera / mi son sentito mezzo morto / mezza schiappa. E ancora: L’inverno non mi piace / la primavera non mi piace / perché mi tiene / appeso all’estremo / il mio ramo?

E se la vita, nella sua declinazione vitalistica e passionale, non è presente a casa Białoszewski allo stesso modo la morte manca di accenti lirici, eroici furori, terrori fuori luogo. La falce dell’estrema nemica diventa, più banalmente, un coltello. Una presenza quotidiana insomma. Capace allo stesso modo di recidere ma senza grandeur. Non per questo meno tragica (e il soggiorno in ospedale, che tanti testi sul tema ha generato, è l’affermazione di una lunga e piatta tragedia quotidiana). Anche la morte in Białoszewski viene proiettata nell’orbita del quotidiano (forse un modo per esorcizzarla?): può essere così / può essere cosà ma è sempre troppo presto: di già

Ulisse domestico

(l’oggetto intimo e oggetto consumato)

L’aspetto principale della poetica białoszewskiana è il rapporto con le cose. Gli oggetti sono l’interlocutore privilegiato di Miron che, come un moderno Odisseo domestico, si muove tra essi e in essi. Il mondo di Białoszewski, apparentemente circoscritto entro le quattro mura di casa, sembra avere, negli oggetti, delle possibilità di uscita, dei varchi che mettono in comunicazione il suo appartamento con il mondo fisico e metafisico. Attraverso di loro entra la realtà esterna insieme con le persone (conoscenti di sconosciuti). Attraverso gli oggetti però esce Miron: essi sono per il poeta finestre verso l’altrove. L’oggetto, spersonalizzato e impersonale, diviene «cosa» animata nel momento in cui attraverso di lui si esprime la storia di qualcuno. “Portavoce di oggetti” dunque, come di lui ha detto Bernardini, ma non è tutto: gli oggetti -isolati, decontestualizzati, superstiti- assumono una dimensione metafisica nel senso che attraverso l’oggetto si evocano realtà altre. La (micro)storia anzitutto, la società comunistizzata, la guerra e le sue ferite mai davvero rimarginate, la morte, la malattia. Ma tali “realtà altre” sono «incontestabilmente» determinate da un’estrema soggettività della percezione. Quindi alla fine Miron non esce mai davvero. Se gli oggetti sono finestre, una volta aperte sembrano comunque affacciarsi sulla nebbia.

Altro aspetto di questa białoszewskiana “poetica dell’oggetto” è quello che, con intelligenza e originalità, il solito Bernardini ha definito pop art. Una pop art declinata secondo quella che è la realtà della PRL: «il problema è che parlare di pop art della Polonia popolare è quasi ricorrere a un ossimoro. Ma non fino in fondo. Nella Repubblica Popolare Polacca potevano mancare oggetti di consumo, ma non certo oggetti consumati: una chiave, una sedia (rotta), un rublo dell’epoca dello zar, un calorifero che perde, un gabinetto intasato. […] Una pop art intesa nel senso etimologico del termine»[7]. Quest’aspetto dell’oggetto di consumo / consumato avvicina la poetica di Białoszewski a quella di Róźewicz, pur con le debite differenze.

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NOTE

Per altre informazioni sull’opera poetica di Miron Bialoszewski rimando alla lettura di Storia della letteratura polacca, a cura di Luigi Marinelli, Einaudi, Torino 2004
e al sito Imperfetta ellisse: http://ellisse.altervista.org/ alla sezione poeti dell’est contiene alcune poesie tradotte da Lorenzo Pompeo, collaboratore del sito. Si tratta di traduzioni preziose in quanto non è mai stato pubblicato nulla in lingua italiana delle poesie di Miron Bialszewski a eccezione di alcuni testi contenuti nella rivista In forma di parole. Cose di Polonia, op.cit.

Foto di Janusz Sobolewski www.fotoinfo.pl


[1] Da Geinealogia della montagna della segregazione in “In forma di parole. Cose di Polonia”, anno XXI, quarta serie, 2001

[2] Luca Bernardini, All’ovest di Mironczewski: alcune considerazioni sulla recezione italiana di Miron Bialoszewski

[3] di «Oho» sono buona parte dei testi sottocitati

[4]L’ironia e la sofferenza in “In forma di parole. Cose di Polonia”, anno XXI, quarta serie, 2001, pag 164

pag.162

[5] Ivi da Racconto di Lu. a He. pag. 143

[6] Ivi pag. 165

[7] Luca Bernardini, All’ovest di Mironczewski: alcune considerazioni sulla recezione italiana di Miron Bialoszewski, in “Comparatistica”, anno XIV, Firenze 2005

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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2 commenti

  1. grazie della citazione…

  2. come ho scritto anche per email chiedo scusa per essermi espresso in maniera frettolosa. Intendevo ringraziare davvero per aver citato il post su Bialoszewski apparso su Imperfetta Ellisse, opera dell’amico Lorenzo Pompeo, collaboratore anche della rivista telematica eSamizdat, che spero conosciate.
    Post e blog entrambi interessanti. Buon lavoro.
    giacomo

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