L’accordo di Vienna rappresenta molto più di quanto giornali e analisti vorrebbero farci credere. Certo, le implicazioni politiche non mancano, sono molte e in parte imprevedibili. E qui i commenti si sprecano: l’Arabia Saudita e Israele scalpitano, i repubblicani negli USA si dicono pronti a dare battaglia, mentre le aziende di mezzo mondo – fiutato l’affare di un mercato enorme a loro precluso per anni – aguzzano gli artigli. Certo, ci sono gas e petrolio, di cui l’Iran è fra i maggiori produttori al mondo. Tutte cose sacrosante, per carità, che i media vanno ripetendo giorno dopo giorno. Ma – non dimentichiamolo – qui c’è molto di più in ballo, per gli iraniani e per chi il paese l’ha vissuto da dentro. Il punto è che l’accordo raggiunto a Vienna rappresenta né più né meno che la fine di un mondo.
Un mondo “altro”, lontano e irraggiungibile per noi in Europa, se non per pochi – avventurieri, folli o sognatori – che per varie ragioni in Iran avevano deciso di viverci, in questi anni. Una categoria, quest’ultima, a cui appartengo io stesso, e con orgoglio. Un mondo simboleggiato dallo sguardo pieno di terrore del mio tabaccaio di provincia – cui avevo chiesto un bollo per il nuovo passaporto – dopo aver risposto alla sua domanda: “Dove vai di bello?” Inutile spiegargli – a lui e a mille altre persone – che l’Iran non è l’Iraq, lì non c’è mica la guerra, e anzi la gente è splendida e per molti aspetti ci si vive bene. Era il 2008, gli anni di Ahmadinejad e dell’asse del male di Bush. Troppo forte il pregiudizio, l’immagine che sopravanzava ragione e realtà. D’altra parte, il rischio all’epoca era quello di passare per eccentrici anche in Iran. Ricordo un dialogo con una cameriera in un fast food di Isfahan. Una domanda, la sua, di quelle che lasciano a bocca aperta: “Come mai hai deciso di venire a vivere qui mentre noi cerchiamo tutti di scappare da questo paese?”
Sì, come mai? Molte le ragioni, legate a un paese che per me è pura poesia, bello come i versi dei suoi antichi poeti, ma insieme anche moderno, vibrante e contraddittorio. Non ricordo più quel che ho risposto, ma mi è rimasto impresso un certo imbarazzo. In effetti, i problemi non mancavano, anche per uno come me che poteva sempre decidere di andarsene, di dire addio in ogni momento alla Repubblica Islamica e alle sue tante restrizioni; opera a volte del regime (come nel caso della censura su internet), altre invece prodotte dalle sanzioni internazionali nate a causa del nucleare. Faccio un esempio: per anni ho viaggiato (e come me tanti) con mazzi di banconote ficcate nei posti più improbabili perché le sanzioni bancarie imposte all’Iran non permettevano di muovere un centesimo da e per l’Europa. Se poi ti capitava – e a me è successo – di finire i soldi, l’unica era farsi fare un prestito da qualche amico, a meno di non volersi affidare a qualche personaggio non troppo raccomandabile giù al bazar. Per fortuna, in Iran l’amicizia è un valore, l’ospitalità un dovere e un onore. Meno fortunati di me, i molti studenti in iraniani in Europa che non potevano ricevere un aiuto economico dalle loro famiglie.
Ma la cosa non finisce qui. Vecchi aerei che restavano in aria per miracolo (mia moglie ne ha preso uno, caduto un paio di settimane dopo: nessun sopravvissuto), perché le sanzioni impedivano alle compagnie iraniane di comprare nuovi veicoli e pezzi di ricambio. A un certo punto si era arrivati al punto che neanche il carburante veniva più fornito loro negli aeroporti europei (con ovvia e uguale rappresaglia nei confronti degli occidentali), e allora un Iran Air in viaggio fra Francoforte e Teheran, ad esempio, si fermava a Belgrado a fare il pieno. Atterrava, si restava una mezzora in aereo parcheggiati a terra, e poi si ripartiva. E ancora: l’inflazione galoppante (all’epoca il secondo paese al mondo, dopo il Venezuela, con i dati peggiori) e la moneta locale, il rial, che crollava progressivamente a picco, un po’ come il marco nella Repubblica di Weimar. Zeri che si aggiungevano a zeri, con 100.000 rial che erano arrivati a valere, nel periodo peggiore, circa due euro. Una cena in un buon ristorante della capitale poteva costare tranquillamente qualche milione. Uno dei discorsi più diffusi in autobus o in metropolitana era allora il cambio con il dollaro, un tormentone che ha tenuto banco per anni.
La cosa peggiore, fra tante, era però la scarsa disponibilità di medicine e tecnologie mediche. Una cosa che, anche da sola, dovrebbe bastare a sbaragliare qualsiasi possibile argomentazione a favore delle sanzioni o della presunta superiorità morale dell’Occidente. L’Iran aveva risposto ad essa producendo per il mercato interno una serie di farmaci a basso costo, ma non sempre poteva bastare. Così, il problema si presentava insormontabile nel caso delle patologie più rare o gravi, con effetti che, per pura pudore, lascio alla vostra immaginazione.
La fine di un mondo, dicevo. Un periodo difficile, in cui molti iraniani (e in primis il regime) trovavano – a torto o a ragione – un capro espiatorio alle ingiustizie subite nel “Grande Satana”: gli Stati Uniti. «Morte all’America!» (Marg bar Amrika!), era uno slogan che si leggeva e si sentiva un po’ ovunque, in Iran. Io me lo sorbivo ogni mattina, insieme all’inno nazionale, intonato dalle scolarette di una scuola elementare sotto casa mia, a Isfahan. Senza rabbia, senza isterie, come in un gioco. Anche per questo, l’Iran di domani non sarà forse più lo stesso. È finito il tempo dei complotti e delle scuse. Ora, il destino del paese è di nuovo nelle mani dei suoi abitanti, un popolo antico e fiero, sopravvissuto a mille invasioni eppure sempre fedele a se stesso. Non abbiamo dubbi: sapranno farne buon uso.