REP. CECA: Tra cambiamenti e persistenza

di Gabriele Merlini

C’è gente che impazzisce per Philip Roth e certo con ottime ragioni; tuttavia anche chi appartiene ad un’altra tribù (Roth avrà a dolersene) arriva quasi sempre a riconoscergli la paternità di  libri essenziali.
Vale per l’opera di Roth, così come per quella di molti altri autori, la predilezione che nutro verso testi corti mandati alle stampe: in genere costano meno e certe penne particolarmente predisposte arrivano al succo potendo vantare un migliaio di pagine di anticipo.
Dunque succede che finisca con trent’anni di ritardo in possesso di una copia della «Orgia di Praga» (1985 – 82 pagine) a causa di una parte del titolo (non «orgia») ritenuta decisamente personale e intima. Lo leggo nella tratta Firenze-Milano (1h:45m circa in tempi di alta velocità), ci trovo qualche spunto e scrivo due righe tardive su East Journal.

Il motivo, al solito, è banalissimo: si tratta di divertente e riuscito affresco sul clima cecoslovacco di fine anni settanta (il regime, l’oppressione delle forze di polizia e la loro frequente ottusità, la complicità di metà della popolazione ai danni dell’altra nonché l’enorme fermento artistico praghese) che tralascia pochissimi aspetti delle ingerenze dittatoriali e pure restituisce il giusto peso alla fondamentale componente ebraica della cultura cittadina, al cui interno tanti intellettuali sono nati e in profondità continua a segnarne l’identità.

La storia: Nathan Zuckerman -gli amanti di Roth lo conosceranno bene avendolo seguito in bagno  e sotto le coperte per quattro decenni- finisce a Praga con l’intento di acquisire manoscritti in yiddish di uno scrittore deceduto del quale ha incontrato il figlio a New York. Stop.
L’ambientazione: si tratta della celebre città «sotto al ghiaccio» del governo di Gustáv Husák, lo spicchio di storia ceca finito all’interno della denominazione un filo fuorviante di normalizzazione (aka: il ritorno alla normalità dopo la parentesi dubčekiana e la Primavera, vale a dire il tentativo di riforma del socialismo secondo vettori non proprio graditissimi per Mosca, ed ecco spiegati i carri armati.) Un minestrone noto ma affrontato con le riconosciute capacità descrittive di Roth e l’ironia che, a sprazzi, ne caratterizza i lavori: spie, spioni, microfoni, doppiogiochisti, soppressione della libertà di parola, di pensiero, di associazione mascherata da forma imprescindibile di tutela popolare attuata da un governo avverso alla degenerazione morale tipica dei sistemi capitalistici; la tanto praticata metodologia di pensiero basata sulla contrapposizione a discapito del confronto (noi: amanti della famiglia – loro: pervertiti. Noi: in sintonia con la gente – loro: egocentrici astiosi, etc.) che fu tipica del periodo ma che ancora in moltissimi, non solo a Praga, paiono apprezzare riconoscendola come unico modo sensato di porsi.
Il tutto unito alla forza detonante della letteratura, della cultura e dell’arte -in particolar modo del teatro- che da secoli Praga incarna in Europa e non solo.

Roba capace di stimolare all’istante, per chi ami bazzicare la Praga di questi tempi, alcuni ovvi parallelismi: scontato come sia (quasi) tutto diverso ma alcune suggestioni sono rimaste identificabili. Un ventennio di stabile libertà ha infatti rinsaldato le solidissime radici democratiche dell’area e il turismo ha reso più difficile l’identificazione della Praga nobilmente sofferente e resiliente dei tempi; tuttavia echi di ciò che fu paiono non cancellabili come vecchi graffiti e vale la pena perdere un po’ di tempo a scovarli, casomai si finisse qui e dimostrassimo il buonsenso di evitare i vari musei del comunismo (unica nota di sdegno: nel luogo dove Roth piazza l’edificio al centro degli incontri di piacere -il parco Kampa in Malá Strana, lungo U Sovových mlýnů e la Moldava- non ho mai visto nessun appartamento privato con movimenti sospetti all’esterno, quanto solo una lunga fila di mamme con passeggino e cani che scorrazzano davanti una galleria di arte moderna.)

Equilibrio tra cambiamenti e persistenza, natura profonda e debolezze esemplificato benissimo dalle parole, alla fine del racconto, del Ministro della Cultura ceco in riferimento al padre: «nel 1937 [mio padre] lodava Masaryk come nostro grande eroe nazionale e salvatore. Poi arrivò Hitler e lodò Hitler. Dopo la guerra lodò Beneš, quando Beneš fu eletto primo ministro. Quando Stalin estromise Beneš, lodò Stalin e il nostro grande leader Gottwald. Anche quando andò al potere Dubček, per qualche minuto lodò Dubček. […] Ecco le persone alle quali noi dobbiamo la sopravvivenza della nostra amata terra. Non agli artisti egocentrici, alienati e degenerati.»
Dobbiamo tutto agli addomesticabili. Non agli artisti. Ricorda qualcuno?
Ma erano proprio altri tempi.

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