Sabato 11 luglio la Bosnia ed Erzegovina, così come tutto il mondo, ha commemorato i vent’anni dall’uccisione a sangue freddo di almeno 8.372 uomini, vecchi e bambini bosniaco-musulmani a Srebrenica, da parte delle milizie serbobosniache di Ratko Mladic e Radovan Karadzic e dei loro sponsor della Serbia di Slobodan Milosevic. Corpi sepolti in fosse comuni e poi traslati in varie fosse secondarie, per nasconderne le tracce. Il più grave massacro avvenuto in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, che due corti internazionali diverse (il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia e la Corte Internazionale di Giustizia) hanno riconosciuto come atto di genocidio, per la sua scala e modalità.
E’ stato un ventennale movimentato, segnato da contrapposizioni e negazionismi. Tutto era iniziato con l’arresto in Svizzera di Naser Oric, ex combattente bosniaco considerato l’estremo difensore di Srebrenica durante l’assedio dell’enclave nel 1992-95, ma un criminale di guerra secondo i serbobosniaci. Oric, già assolto dal tribunale dell’Aja, è stato infine estradato nella sua Bosnia anziché in Serbia, da dove proveniva il mandato di cattura, ma il caso aveva fatto rimontare le tensioni. Il sindaco di Srebrenica, Camil Durakovic, aveva annunciato la sospensione della commemorazione del ventennale in caso di mancato rilascio di Oric, per impossibilità di garantirne la sicurezza.
A inizio luglio, inoltre, la Russia aveva deciso di opporre il veto, su richiesta delle autorità serbe e serbobosniache, ad una bozza di risoluzione ONU che ricordava Srebrenica come genocidio. “Il genocidio è un fatto provato, e il rifiuto di riconoscerlo è un ostacolo alla riconciliazione”, aveva commentato l’ambasciatrice USA all’ONU Samantha Power. Eppure, solo poche settimane prima, l’ambasciatore russo a Sarajevo Petar Ivancov assicurava che Mosca non avrebbe negato la qualifica del massacro di Srebrenica come genocidio. Alla fine l’insistenza serba verso la Russia ha prevalso. A Sarajevo, intanto, l’ONU ha fatto un’altra brutta figura, che si aggiunge alla lista: furono proprio i caschi blu olandesi, in quel 1995, a dimostrarsi incapaci di prevenire il genocidio imminente, quanto non suoi involontari complici, in quella che era “area protetta” ONU.
La Serbia si è sempre proclamata estranea ai fatti di Srebrenica, compiuti da paramilitari serbobosniaci, e ciò le è stato riconosciuto anche dalle Corti internazionali, da cui è stata condannata solo per non aver fatto abbastanza per impedire il genocidio. Tuttavia, e nonostante le scuse ufficiali da parte dell’ex presidente Boris Tadic nel 2010, i governi di Belgrado continuano ad essere reticenti sulla questione. Così, governo e capo di stato di Belgrado – così come le autorità serbobosniache di Banja Luka – avevano fatto appello nelle scorse settimane alla Russia affinché si opponesse alla risoluzione. In un raro esempio di esplicita gaffe diplomatica, il presidente serbo Tomislav Nikolic aveva scritto una lettera direttamente indirizzata alla regina Elisabetta per chiederle di ritirare la risoluzione, di cui la Gran Bretagna era primo sponsor. Resta da vedere quali saranno i costi a medio termine per la Serbia, sia in termini di cambiali russe, sia di relazioni con UE e Stati Uniti. Proprio tra l’8 e il 9 luglio è passata da Belgrado la cancelliera tedesca Angela Merkel, in visita nei Balcani: la Serbia aspetta a breve una data per l’apertura dei primi capitoli negoziali d’adesione all’UE, finora condizionata a progressi concreti nella normalizzazione delle relazioni col Kosovo. Nel frattempo il Parlamento europeo ha passato una sua risoluzione – senza veti, in questo caso – sulla memoria del genocidio di Srebrenica, che rischia di trasformarsi nei prossimi anni per la Serbia in una pietra d’inciampo nel percorso d’adesione all’UE.
Ed anche per questi motivi è rimasta in forse fino all’ultimo momento l’annunciata partecipazione del primo ministro serbo Aleksandar Vucic si alle commemorazioni del ventennale a Srebrenica, ventennale di un genocidio che lui e le autorità serbe ancora si ostinano a non riconoscere pienamente per ciò che è stato. Vucic, che durante la guerra militava nel Partito Radicale Serbo e che ancora pochi anni fa dedicava simbolicamente strade a Ratko Mladic, è stato accolto da Hatidza Mehmedovic, delle Madri di Srebrenica, che gli ha appuntato all’occhiello un “fiore di Srebrenica”, il simbolo della memoria del massacro, dicendogli “sei giovane, noi abbiamo bisogno di tolleranza”. Un’immagine di forza e dignità, purtroppo messa in ombra da ciò che è venuto dopo: il lancio di sassi e bottiglie verso il premier serbo da parte di alcuni esagitati, mentre passava in mezzo ai 50.000 convenuti dopo il suo discorso, che l’ha costretto ad una rapida partenza dal sito. Una vicenda che sui tabloid serbi è presto diventata un “tentativo di assassinio” e che ha oscurato ogni dovuta riflessione sugli eventi del 1995.
Srebrenica è oggi uno dei lieux de mémoire principale per i bosgnacchi (bosniaci di cultura musulmana); essa tuttavia resta un terreno scivoloso per i serbi, di Bosnia e di Serbia, che tendono a minimizzarne la portata e a relativizzare l’evento nel contesto degli attacchi ai civili serbi da parte delle milizie di Naser Oric durante i tre anni di guerra del 1992-95. Questo consolidamento di varie memorie mononazionali in contrapposizione è un rischio importante: la sfida principale per la memoria di Srebrenica è oggi nella sua accettazione da parte dei serbi. Il canone della memoria dell’Olocausto, sui cui stilemi si sviluppa la memoria di Srebrenica, d’altronde, può risultare inadeguato ad un conflitto che non si è concluso con la sconfitta definitiva della parte genocidaria, ma che vede le diverse parti in conflitto cercare di ricostruire una vita fianco a fianco. Può essere quindi necessario cercare nuove parole e nuove modalità più inclusive per parlare di Srebrenica anche ai serbi della strada, che la vedono spesso solo come una cospirazione anti-serba a cui opporre una narrativa di contro-vittimizzazione.
Per fortuna ci sono segni che non debba essere sempre così. Lo indica il coraggio con cui dieci deputati serbi hanno proposto una risoluzione all’Assemblea Nazionale di Belgrado per il riconoscimento del genocidio, o quello del giornalista Dusan Masin che per l’11 luglio ha organizzato un sit –in simbolico di 7000 persone davanti al Parlamento serbo, per visualizzare il numero delle vittime di Srebrenica. Il sit-in è poi stato vietato in extremis dal governo Vucic, per timore di scontri, ma la sedam hiljada ha comunque tenuto una veglia della vigilia in grado di portare la memoria di Srebrenica nel cuore della capitale serba, seppur contestata dai nazionalisti e radicali guidati da Vojislav Seselj, da poco rilasciato dall’Aja per motivi di salute. O ancora l’azione delle Donne in Nero di Belgrado, che hanno apposto una targa alla memoria del genocidio, in stile “pietra d’inciampo”, in ulica Srebrenicka, la via dedicata alla cittadina bosniaca nel centro storico della capitale serba. Tutti gesti che mostrano come, su Srebrenica, il dialogo deve essere condotto all’interno della società serba, tra serbi e serbi, per il riconoscimento di ciò che è stato e la definizione di ciò che la Serbia futura vuole essere. Dieci anni fa Vucic negava il genocidio tout court, oggi arriva a riconoscere il massacro e a recarvisi, pur senza ancora nominarlo come genocidio. La società serba progredisce, anche nel riconoscimento dei crimini compiuti dalla propria parte durante il conflitto di vent’anni fa, i governi la seguiranno.
Articolo pubblicato su Mente Politica del 14 luglio 2015