Caro Luca,
c’è un passo nel Giovane Holden, in cui il protagonista afferma che un bravo autore è quello che ti fa venir voglia di scrivergli dopo aver finito il suo libro, di averlo come amico personale al quale poter telefonare anche nel cuore della notte.
Mi perdonerai la citazione non del tutto letterale, ma ho fretta di scriverti caro Luca, quasi a trattenere la tua ormai ineluttabile dipartita da questo mondo.
Vedi caro Luca, tu eri qualcosa di più di un autore a cui si vuole scrivere, tu eri un amico che ad un certo punto era diventato uno scrittore ed io non riuscivo mai a trattenermi: dovevo sempre scriverti dopo ogni tuo libro. Era quasi un lavoro di raffinata ermeneutica il nostro, noi che venivamo dalla scuola filosofica torinese: io interpretavo il tuo libro, tu rispondevi e inevitabilmente finivamo per parlare d’altro.
Ci siamo incontrati perché amavamo entrambi Praga, ma poi avevamo iniziato a perderci in lunghe discussioni sul conflitto nei Balcani, sulla qualità delle birre boeme, sul precariato nel mondo del lavoro, sulle nostre figlie, la mia più grande porta il nome della tua maggiore ed è nata cinquanta giorni prima della tua seconda bambina.
Vedi Luca, la nostra non era solo un’amicizia, anche se era soprattutto questo. Tu avevi il talento, mi verrebbe da scrivere l’incanto, di sciogliere i grandi nodi sociali, politici, storici e contemporanei per mostrarne la vera composizione.
Ricordo il primo choc che conobbi grazie alla tua scrittura. La guerra in casa rimane fra i migliori libri sul conflitto balcanico degli anni novanta. L’avevo letto tutto d’un fiato quando fu pubblicato nel 1998, mi ero addentrata nelle spire delle politiche nazionaliste, avevo letto con crescente partecipazione le pieghe oscure del volontariato che accoglieva i profughi (pochi) di quella guerra, avevo conosciuto le nefandezze dei frati francescani di Medjugorje, ma non mi sarei aspettata il finale.
Il capitolo conclusivo del tuo libro reca un titolo rassicurante: Gli angeli. Mi accostai con una certa circospezione: volontari molto buoni, giusti in tempo di violenze estreme? No, niente di tutto ciò, gli angeli erano i caschi blu, quelli mandati dalle Nazioni Unite a trattenere la violenza esercitata sulle popolazioni civili, che ne divennero invece complici. Fu per me un colpo, non perché venni a sapere nefandezze di cui già avevo notizia, ma perché tu mi avevi messo di fronte alla realtà, avevi strappato il mio personale e ingenuo velo di Maya: non esistono i buoni contro i cattivi, non esistono i buoni sentimenti che salvano l’umanità, esistono solo la dannata volontà di ricerca dei fatti sempre e comunque e la propria individuale responsabilità. Mi avevi dato una bella lezione, caro Luca, ed io non la dimenticai più.
Molti anni dopo hai scritto un altro libro, i Buoni, e questa volta sono partita più attrezzata. I buoni sono sempre loro, sono quelli che in circostanze più estreme diventano gli angeli. I buoni sono coloro che succhiano i tuoi buoni sentimenti, che ti accalappiano attraverso i tuoi sensi di colpa, ti integrano in un sistema (non importa quale) e ti espellono al primo dubbio, alla prima espressione di individuale libertà.
È vero, caro Luca, per quest’ultimo libro non ti avevo scritto, ma me l’ero portato appresso l’ultima volta che ci siamo incontrati e ti ho chiesto una dedica. “A Donatella, ormai sodalizio a vita”, hai scritto. Proprio quella vita che ti stava abbandonando e che hai amato con ogni tua fibra.
Quando una lettera apre un mondo.
Grazie a questa lettera ho conosciuto il libro di Luca Rastello e lui è diventato quasi un mio amico….Libro potente, difficile per gli intrecci e i nomi strani per noi ma che apre uno squarcio formidabile su quanto successe in quegli anni senza che quasi ne fossimo toccati…. Grazie di averne ricordato l’autore e oggi grazie ad East Journal che ci fa sapere dell’arresto del carnefice di tre nostri volontari italiani nel 1993.