di Matteo Zola
Prendere tempo, camminando sul filo teso dell’equilibrismo internazionale, e farlo con singolare abilità. La politica estera turca da tempo si muove, con cautela e astuzia, tra oriente e occidente, tra Nato e Iran, tra islamismo e laicità, tra Balcani e mondo arabo. La guerra in Libia ne è un valido esempio. La Libia è stata provincia ottomana fino al 1911 quando l’Italia giolittiana fece guerra alla Sublime Porta accaparrandosi Cirenaica e Tripolitania per farne colonie (tra l’altro, ricorre quest’anno il centenario di quella guerra). Gli investimenti di Ankara in Libia, e i rapporti economici con il regime di Gheddafi, sono cospicui e si sono intensificati con il progressivo allontanamento della Turchia dall’Unione – allontanamento che certo non non si può attribuire a volontà turca.
Negli ultimi quattro anni Ankara si è assicurata contratti per 15 miliardi di dollari soprattutto nel settore costruzioni. Nel 2010 l’interscambio fra le due nazioni è stato di 2,2 miliardi di dollari, il 60% in più rispetto all’anno precedente, e arriverà a 10 mld di dollarinei prossimi cinque anni. Sempre se Gheddafi resterà al suo posto. Al momento ci sono oltre 200 aziende turche operanti sul territorio. Le relazioni sono esplose nel 2009, guarda caso dopo che c’era stata l’operazione israeliana “Piombo Fuso” sulla Striscia di Gaza alla quale Erdogan si era opposto con forza, arrivando ad attaccare in mondovisione il presidente israeliano Simon Peres durante il World Economic Forum a Davos.
Venne poi l’episodio della Freedom Flottilla, le navi di pacifisti dirette a Gaza e assaltate dalle forze speciali israeliane che temevano fossero cariche di armi per i palestinesi. Quelle imbarcazioni battevano bandiera turca. Nei mesi scorsi la Turchia ha iscritto Israele tra i nemici dello Stato e si è ancor più avvicinata alla Libia. Oltre alle evidenti ragioni economiche ci sono quelle diplomatiche. Ankara vuole diventare il Paese islamico di riferimento per tutto il mondo musulmano: l’avvicinamento all’Iran e alle dittature dell’Asia centrale (Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, tutti Paesi musulmani e di lingua turcica), la difesa dei diritti dei palestinesi, l’avvicinamento al nuovo Egitto dei gelsomini, vanno letti in questo senso.
Quindi anche lo smarcamento dall’operazione Onu è un tentativo per incarnare una “terza via“. Non sarà difficile accusare i Paesi occidentali delle morti civili in Libia, ingraziandosi i favori del popolo liberato dalle bombe e, per le bombe, adirato. Così la Turchia tenterà di diventare per la Libia un modello di Islam moderato, capace di unire democrazia e tradizione, come sta cercando di fare con l’Egitto del dopo Mubarak. Se invece Gheddafi dovesse rimanere al suo posto, sarà facile mantenere gli accordi economici. E se, per caso, l’operazione “Odissea all’alba“passasse sotto comando Nato, sarà possibile ritagliarsi un ruolo di mediazione che sarà assai rilevante per un “occidente” impegnato a non far sembrare una “crociata cristiana” l’ennesima guerra per il petrolio.
Insomma, con i negoziati per l’ingresso nell’Unione che vanno di male in peggio, e con Washington insospettita dalla condotta di quello che fu un fedele alleato Nato, la politica estera turca è tutt’altro che sprovveduta ed anzi testimonia la qualità della sua classe politica. Gheddafi non è ancora caduto e un’adesione forte all’attacco oggi potrebbe compromettere opportunità di mediazione domani. C’è poi da conquistare la palma di leader nel mondo arabo e soprattutto tutelare i tanti, tanti affari che fanno del silenzio di Ankara un silenzio d’oro.
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