di Matteo Zola
La domanda è: perché la Russia è contraria all’intervento militare in Libia? Andiamo con ordine. Dopo aver espresso la sua contrarietà, in sede Onu, nei confronti dell’opzione militare contro il regime del Raìs di Tripoli, la Russia si è poi astenuta dal votare la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Astensione non vuol dire rifiuto. Cerchiamo anzitutto di capire come si profila l’approvazione di tale risoluzione dal punto di vista del diritto internazionale:
La Risoluzione e la Carta
la Risoluzione 1973 è il naturale seguito della Risoluzione 1970 che, in ottemperanza dell’articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite, prevede sanzioni non militari per un Paese che violi i diritti umani attraverso il ricorso della violenza. La Risoluzione 1970, approvata nei confronti di Gheddafi, è stata considerata non adempiuta dal Raìs colpevole -secondo il Consiglio di Sicurezza- di non aver posto fine alle violenze, di non aver accolto le legittime domande della popolazione e di non aver rispettato i diritti umani e il diritto internazionale umanitario. La Risoluzione 1973 passa dunque dalle parole ai fatti riferendosi all’articolo 42 della Carta, il quale stabilisce che “se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite”.
Sovranità e guerra umanitaria
La Risoluzione non è stata dunque un atto “frettoloso“, come sostenuto dal dal ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. Dal punto di vista delle relazioni internazionali, quindi, l’operazione è legittima tanto più se, come in questo caso, condivisa (almeno inizialmente) da istituzioni terze, come la Lega araba. Il concetto di sovranità, proprio del diritto pubblico e internazionale, prevede però che l’esercizio del potere da parte di uno Stato nei confronti del proprio popolo e sul proprio territorio non sia alienabile. L’esercizio della sovranità esprime la possibilità di esercitare una supremazia nell’ambito di una comunità stanziata su un certo territorio.
Da questo punto di vista quanto accade in Libia, con la repressione dei rivoltosi, è un atto legittimo da parte di uno Stato sovrano. Il diritto alla sovranità ha però un limite, quello derivato dall’ordinamento internazionale il cui scopo è quello di assicurare la coesistenza fra gli stati e di tutelare i popoli e i singoli individui in nome dei diritti umani. In questo senso, quindi, la guerra in Libia è effettivamente “umanitaria”. Naturalmente tale espressione si presta a evidenti critiche: quale guerra, si dice sovente nell’opinione pubblica, può dirsi “umanitaria“? L’operazione “Odissea all’alba“, però, non è tecnicamente una guerra anche se, a voler evitare equilibrismi lessicali, quando volano i caccia e i sottomarini bombardano risulta difficile non chiamarla guerra.
Il Cremlino e il Raìs
La contrarietà di Mosca, quindi, non è certo imputabile a questioni legate al diritto internazionale (anche perché la questione cecena rappresenta un evidente vulnus alle ragioni umanitaristiche del Cremlino). Alla contrarietà russa si somma, poi, quella della Cina e di alcuni membri dell’Unione Europea con la Germania in testa. A cosa sono dovute? Posto che non è possibile credere a una guerra “umanitaria“, gli interessi che muovono le potenze sono di altro genere.
Le prime relazioni tra Russia e Libia risalgono alla metà degli anni Settanta, qualche anno dopo l’ascesa al potere dell’allora anti-occidentale Gheddafi. Si trattava di rapporti commerciali, centrati sull’esportazione di armi russe in Libia e di entità tale che l’arsenale militare libico era costituito per il 90% da forniture sovietiche. L’esportazione fruttava a Mosca circa 100 milioni di dollari l’anno, mentre il Paese nordafricano di indebitava sempre di più.
Venne poi la caduta del Muro di Berlino e la nuova Russia made in Usa si schierò subito tra i nemici del Raìs ma i rapporti migliorarono con la presidenza di Putin. Mai però furono idilliaci. L’arresto ingiustificato, da parte del governo libico, di un rappresentante della Lukoil (compagnia petrolifera russa) nel novembre 2007, è un esempio di questa tensione costante. Putin si recò in Libia a metà aprile 2008, raggiungendo tutta una serie di accordi, dalla risoluzione del debito libico alla costruzione di una linea ferroviaria tra Sirte e Benghazi da parte delle ferrovie russe; dal rinnovo della collaborazione tra Gazprom e la compagnia petrolifera nazionale libica alla possibilità di un incremento della vendita di armi russe e – soprattutto – la possibilità di aprire basi militari russe in territorio libico (cosa mai realizzata) e di utilizzare i porti di Bengasi e Tripoli come attracco per le navi militari russe che, da anni, tentano di assestarsi nel Mediterraneo. Dopo l’Italia, la Russia è dunque il Paese con maggiori interessi in Libia ma conosce bene l’andamento ondivago della politica estera del Raìs.
Astensione, non veto. Guardando ai gelsomini
Quindi astensione, non veto. Per poi mostrarsi solidale con i civili libici e con la Lega araba che, in queste ore, ritiene eccessivo l’intervento Onu rispetto al mandato iniziale. La Russia, che teme il contagio delle rivoluzione arabe nel Caucaso settentrionale – dove forte è la presenza musulmana – preferisce evitare la diffusione delle “rivolte dei gelsomini” e certo la questione libica è un pericoloso crinale per i destini del mondo arabo. Da un lato potrebbe produrre nuove democrature in salsa americana, e questo non piace alla Russia; oppure potrebbe fomentare il fondamentalismo, e nemmeno questo piace alla Russia che col fondamentalismo ha già i suoi problemi; infine potrebbe portare a un lento processo di rinnovamento democratico, e la democrazia fa paura ai russi. Così, nel vicolo cieco della questione libica, la Russia cerca di mostrare la propria forza politica e diplomatica: sono finiti i tempi in cui il Cremlino andava a seguito del cosiddetto “occidente”. E certo non lo seguirà in una guerra da cui Mosca ha poco o nulla da guadagnare.
Neocolonialismo europeo?
Dietro alla contrarietà cinese, che pure non ha posto il veto in Consiglio di Sicurezza limitandosi all’astensione, ci sono ragioni di opportunismo economico: da tempo Pechino si muove in Africa colonizzandola con i suoi investimenti e prodotti. A muovere l’Europa verso l’intevento è, invece, la banale necessità di far ripartire l’economia ampliando la propria influenza sul Nord Africa: una forma di neocolonialismo cui la Germania si oppone. Sulle ragioni di Berlino si legga qui e qui quanto scritto da Pier Luigi Mennitti. Tagliata fuori da immediate possibilità di lucro in Libia, il Cremlino ha preferito mantenere una posizione intermedia. I beni di Gheddafi, però, sono stati già congelati. Questione di soldi, come sempre.
d’accordo, come sempre. L’ONU è un po’ come un condominio… difficile andare d’accordo con tutti perché ognuno ha i suoi interessi