Dopo mesi di tira e molla, il premier greco Alexis Tsipras ha gettato la spugna e indetto un referendum consultivo per lasciar decidere al popolo greco se accettare o meno il piano d’aiuti proposto dalla (ex) Troika e, quindi, se rimanere o no nell’Eurozona. Arrivati a questo punto, forse per i greci uscire dalla moneta unica potrebbe essere la soluzione meno dolorosa; ma per noi altri europei?
La Grecia si prepara al referendum. In attesa di conoscere quale sarà il piano che, in definitiva, verrà proposto al governo greco, il premier Alexis Tsipras ha annunciato che il 5 luglio si terrà una consultazione popolare per decidere se accettare o meno il progetto della Troika.
Siamo al rush finale: o dentro o fuori. A nulla sono serviti mesi e mesi di dibattiti, riunioni, accuse e minacce: una quadra non è stata trovata e così Tsipras, colui il quale era stato votato a gennaio per andare a Bruxelles e impedire che l’austerità continuasse ad essere l’unica soluzione praticata, non ha potuto fare a meno che gettare la spugna e indire un referendum, ammettendo così, implicitamente, il suo fallimento politico.
Oggi si conosceranno tutti i dettagli del piano, ma ormai poco importa: se novità consistenti non si sono palesate in mesi di trattative, non sarà certo l’ultima proposta quella “indecente”.
Eppure, sembrava che questa dovesse essere la settimana della svolta – e in parte, a dire il vero, lo è stata -: lunedì, infatti, l’accordo pareva ad un passo dall’essere firmato e sottoscritto. Le borse avevano esultato, i greci erano scesi in piazza Syntagma, epicentro di Atene e simbolo di questi 8 anni di crisi; tutto, dunque, sembrava volgere per il meglio. Lunedì, però, la firma non era stata ancora apposta su alcun documento, rimandando il tutto all’indomani. Ma nemmeno martedì si è arrivati a un accordo, e mercoledì neppure, e così via fino ad oggi.
I greci, che ormai pregustavano la fine di questo incubo, sono andati via da piazza Syntagma per riversarsi agli sportelli delle banche, per ritirare gli ultimi risparmi rimasti.
E’ veramente complicato comprendere perché l’Europa stia lasciando che la Grecia esca dall’euro: si era riusciti – anche grazie alle politiche di austerity – a portare l’economia greca ad avere un surplus di bilancio – tolto ¬il pagamento degli interessi. Ed era questo quello a cui l’Europa doveva puntare: fare in modo che Atene non avesse più bisogno di piani di salvataggio. Chiedere di più avrebbe inflitto solo danni inutili all’economia. Quando i tassi di interesse sono pari a zero, come lo sono ora, i tagli di bilancio del 3 percento del prodotto interno lordo – sostiene Paul Krugman – farebbero scendere l’economia greca di circa il 7,5 percento.
Ma, evidentemente, i vertici dell’Unione europea non hanno avuto, durante questo tempo, come primo pensiero l’obiettivo di salvare “ad ogni costo” la Grecia, bensì quello di condurre il paese verso la via d’uscita che i paesi più virtuosi ritenevano essere quella giusta, seguendo un percorso di riforme e manovre finanziarie riassumibile nel termine “austerità”.
Con un’economia immobile, con salari e pensioni ormai ridotte all’osso, con un’inflazione arrivata ormai a toccare il punto più basso della storia, uscire dall’Europa oggi sembrerebbe essere la soluzione più ovvia e scontata – e forse la più giusta. Secondo uno studio pubblicato recentemente sulla rivista Economia e Politica– che, mettendo in relazione le opinioni di chi sosteneva che uscire dall’euro avrebbe portato alla catastrofe e chi, invece, affermava l’opposto, analizzava i casi, nella storia, di abbandono del cambio fisso e i suoi conseguenti effetti sull’economia -, i risultati di un abbandono del tasso di cambio fisso in termini di crescita, distribuzione e occupazione dipendono, più che dall’abbandono del vecchio sistema di cambio in sé, dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali; chi sostiene che gli episodi di abbandono di regimi di cambio fisso sono associati a una crescita dell’inflazione incalcolabile – afferma sempre questo studio – dice il falso, poiché l’aumento di quest’ultima sarebbe di poco superiore a due punti percentuali nell’anno dell’uscita dal regime di cambio, e addirittura l’inflazione si ridurrebbe nei cinque anni successivi all’uscita rispetto ai cinque anni precedenti.
L’autrice dell’analisi ammette che le uscite da regimi di cambio fisso risultano correlate in media a riduzioni non trascurabili dei salari reali e della quota di reddito nazionale spettante ai salari, ma d’altro canto sostiene si tratti di riduzioni non troppo diverse da quelle che già si stanno registrando dentro l’eurozona nei paesi maggiormente colpiti dalla crisi.
Dunque, l’uscita della Grecia dall’euro potrebbe effettivamente apportare dei benefici, dal punto di vista economico e sociale, al paese. Il problema è che il resto dell’Europa ne risentirebbe negativamente: un abbandono dell’euro da parte di uno Stato membro avrebbe come ripercussione la fine della moneta unica e, di conseguenza, l’inizio di un attacco speculativo difficilmente calcolabile, che punterebbe alla fine del regime a cambio fisso. Non solo: la morte dell’euro equivarrebbe alla morte dell’Unione Europea, di quel sogno che per molti è stato finora il faro verso un futuro più global, un mondo più unito, capace di non farsi più la guerra, ma di convivere in pace e prosperità.
Per questo, tutti gli europei dovrebbero pregare i greci affinché, il 5 luglio, votino a favore del piano di salvataggio proposto dalla (ex) troika: non sarà probabilmente la soluzione ai loro mali e, anzi, potrebbe affossare ulteriormente l’economia ellenica, ma permetterebbe al resto d’Europa di continuare a sopravvivere, in attesa che questo – forse utopistico – sogno dell’Europa unita affondi le sue radici su un terreno sempre meno friabile.