di Massimiliano Ferraro
La vera notizia è che se ne parli. In Uzbekistan, dove il governo ha vietato ai mezzi di informazione ogni accenno alla rivoluzione in atto in Libia, una radio sta continuando a trasmettere l’evolversi della crisi.
L’emittente Poytakht-Inform di Tashkent, 107,2 Mhz FM, sembra aver deciso di sfidare la censura del regime uzbeko, imposta per timore che il vento della rivoluzione magrebina arrivi a soffiare anche in Asia Centrale.
I coraggiosi speaker della radio hanno deciso da qualche giorno di inserire tra le notizie internazionali gli aggiornamenti sui tumulti di Tripoli e Bengasi, forse proprio nella speranza di portare il popolo alla rivolta contro la ventennale autarchia di Islom Karimov. Una voce maschile definisce Gheddafi un “dittatore che umilia i diritti dei suoi cittadini”, parole che sembrano calzare a pennello anche al presidente uzbeko, accusato dalla comunità internazionale di violare i diritti umani e di non garantire la libertà di stampa.
Sorprendentemente, le autorità non sono ancora intervenute per soffocare quest’unica, flebile, voce indipendente del paese. Ma cosa succederebbe se le notizie provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo convincessero per davvero gli uzbeki a scendere in piazza? Da più parti emerge il timore che il regime sarebbe implacabile come nel 2005, quando i soldati spararono su un pacifico corteo di protesta, uccidendo nove persone.
Un anno prima, nel 2004, l’ex ambasciatore britannico a Tashkent, Craig Murrav, svelò in un libro alcuni dei metodi utilizzati dal regime per punire gli oppositori, tra i quali spiccava l’orrenda pratica della bollitura a morte.
Secondo l’Onu, l’Uzbekistan ha attuato negli anni la tortura “istituzionalizzata, sistematica e dilagante” dei dissidenti, accettandola come parte integrante del proprio ordinamento giuridico.
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