Il 7 giugno la Turchia andrà al voto per una tornata elettorale di cruciale importanza nella storia del paese. L’obiettivo del partito di governo AKP è quello di ottenere nel nuovo parlamento una maggioranza tale da poter modificare la costituzione e trasformare il sistema politico del paese in senso presidenzialista, consentendo a Erdoğan di concentrare nelle proprie mani un immenso potere.
L’AKP e i suoi sostenitori ritengono che le riforme porteranno una maggiore efficienza ai vertici dello stato e rafforzeranno la Turchia, mentre gli oppositori vedono nel presidenzialismo dell’AKP un progetto essenzialmente autoritario. L’attitudine rivelata da Erdoğan negli ultimi due o tre anni rende comprensibile il timore, avvertito da una parte consistente della società turca, nei confronti del potere virtualmente arbitrario e privo di contrappesi e controlli che sarebbe attribuito al presidente.
A dispetto delle 20 liste che si presentano alle elezioni, il nuovo parlamento sarà realisticamente composto da tre o al massimo quattro partiti. La differenza enorme tra il numero di formazioni politiche che parteciperanno alle elezioni e quelle che effettivamente saranno rappresentate è direttamente legato alla vexata quaestio dell’altissima soglia di sbarramento del 10% necessaria per entrare in parlamento, che rappresenta un grave problema per la qualità della democrazia turca.
Pressoché sicuri di entrare in parlamento sono unicamente – oltre ai conservatori al governo dell’AKP – i due principali partiti d’opposizione, il kemalista CHP e l’ultranazionalista MHP. La variante principale di queste elezioni sarà quindi la prestazione del partito di sinistra HDP, che quasi tutti i sondaggi pre-elettorali dell’ultimo mese danno tra il 9% e l’11%, quindi a cavallo della fatidica soglia di sbarramento. Il HDP è sotto molti aspetti l’erede degli storici partiti filo-curdi degli ultimi vent’anni, ma si distanzia dai suoi predecessori per l’esplicita volontà di abbandonare il nazionalismo curdo e rappresentare la sinistra “radicale” di tutta la Turchia. Il HDP è dunque formalmente accostabile a una versione turca di Syriza o Podemos, ma non è chiaro quanto facilmente possa andare oltre la sua tradizionale base elettorale curda.
Al di là della novità ideologica da esso rappresentata, il HDP è importante soprattutto da un punto di vista squisitamente aritmetico. L’altissima soglia di sbarramento, riducendo drasticamente il numero delle forze politiche destinate a spartirsi i seggi, ha come effetto collaterale quello di dare ai partiti che superano la quota del 10% – e in particolare a quello vincitore – una rappresentanza spesso superiore al reale peso elettorale. Un caso emblematico è quello delle elezioni del 2002, che segnarono l’ascesa al potere di Erdoğan e del suo partito. In quel l’occasione solo due partiti – AKP e CHP – superarono la soglia di sbarramento. L’AKP con solo il 34,28% dei voti sfiorò i due terzi dei seggi del parlamento, mentre quasi il 45% degli elettori rimasero senza rappresentanza parlamentare. Dunque è evidente come la presenza di quattro partiti, invece di tre, avrebbe un forte impatto sulle possibilità dell’AKP di raggiungere l’altissima maggioranza di seggi sperata per poter modificare la costituzione.
Il partito di Erdoğan e Davutoğlu, in crisi di consensi secondo la maggior parte dei sondaggi, è costretto a fare i conti con la matematica. Certamente l’AKP risulterà il primo partito in Turchia, ma ottenere più voti dei propri avversari potrebbe non bastare. Gli obiettivi del partito di governo sono molto chiari in termini aritmetici. Per poter modificare autonomamente la costituzione l’AKP avrebbe bisogno di 367 seggi, pari ai due terzi del totale, ma stando ai sondaggi questo traguardo sembra difficilmente raggiungibile. Più facile che l’AKP confermi i 330 seggi (tre quinti) necessari per proporre un referendum costituzionale. Il mancato raggiungimento di questo obiettivo minimo rappresenterebbe una chiara sconfitta politica. Se poi – come suggerito da alcuni sondaggi – l’AKP potesse non raggiungere i 276 seggi necessari per formare un governo monocolore, si tratterebbe di una disfatta di dimensioni colossali. Difficile persino immaginare i possibili scenari che una prospettiva di questo tipo aprirebbe.
Per recuperare il consenso perduto, Erdoğan – violando spesso in modo più o meno palese la teorica neutralità della presidenza – ha sfoderato negli ultimi mesi una retorica populista che mescola la ripresa di alcune vecchie tematiche islamiste con un piglio nazionalista in parte inedito per la tradizione dell’AKP. La sintesi di elementi nazionalisti e islamici ha dominato la politica turca negli ultimi quarant’anni, e non rappresenta di certo un elemento originale. Il presidente turco ha scelto dunque un modo sicuro e collaudato per riconquistare i cuori del suo popolo, ma questa volta potrebbe non bastare.